“He’s a funny man, in small doses”

Siamo un po’ inquieti. Il nostro aereo parte da Milano con quasi un’ora di ritardo. Abbiamo calcolato tutto ma nessuno aveva preso in considerazione la possibilità di un ritardo aereo. All’arrivo a Edinburgh dovremo correre e procurarci una macchina al più presto. Ci aspetterà una attraversata di circa 3 ore e mezza prima di raggiungere Kennacraig, per l’imbarco sul ferry che ci porterà sull’Islay. Vicino al nostro imbarco una folla disordinata aspetta l’aereo per Sofia. Sto seduto a terra con la mente abbastanza leggera. Ho appena ingurgitato una birra in fretta e furia, così, giusto per alleggerire un po’ il peso dell’attesa e la mia cronica ansia da volo anche se devo ammettere che con gli anni ho migliorato considerevolmente la mia resistenza all’ansia. Quattro Temesta aspettano comunque beate in tasca come sempre. Just in case. Apre il boarding ai passeggeri appartenenti al gruppo A. Tutti praticamente. Solo una ventina di poveri scemi, noi inclusi, appartengono alla categoria B che sale per ultima dovendosi accontentare dei buchi rimasti disponibili qua e la all’interno dell’aereo che comunque é tutto “Schweine Klasse” come direbbero i miei compagni di viaggio, percui é inutile accalcarsi, tanto ci sono solo posti di merda. Prendiamo posto e partiamo poco dopo. Sorvoliamo le Alpi che intravvedo con qualche acrobazia. E’ sempre emozionante sorvolare queste vette maestose… Non vedo l’ora di assaporare qualche magnifico Single Malt. Dopotutto é per questo motivo che abbiamo deciso di trascorrere qualche giorno in Scozia. Intanto cerco di immaginare i motivi che hanno spinto i passeggeri di questo aereo ad andare in Scozia. Voglio capire se qualcun’altro é stato condizionato dall’Acqua della vita.

“Cosa vedi?” mi chiede Eero. “Acqua” rispondo. Stiamo sorvolando il Canale della Manica

Ancora alcune piccole riflessioni e già siamo a Edinburgh (Edinbra). Il controllo passaporti prende un po’ di tempo e probabilmente pensiamo tutti che il viaggio verso Kennacraig si faccia sempre più difficile ma invece a sorpresa riusciamo a passarlo abbastanza speditamente e quasi subito recupero il mio bagaglio da stiva. Il noleggio dell’automobile é solo una formalità e dopo mezz’ora dallo sbarco stiamo già correndo in autostrada in direzione di Glasgow. Siamo tutti sereni e sicuri di farcela per le 17 e 30 all’imbarco per il ferry. Superiamo la periferia nord di Glasgow e ci dirigiamo verso la costa ovest del Loch Lomond. Eero, che é l’unico ad avere un po’ di esperienza di guida a sinistra é stato unanimemente scelto per questa prima tratta verso l’Islay. Stiamo tutti immaginandoci quella che potrebbe essere la prima cena sull’Islay. Avevo contattato il proprietario del Lochindaal Hotel a Port Charlotte un paio di giorni prima dell’arrivo in modo da garantirci una cena a base di “MARE” ma ogni tentativo di rintracciare Iain Maclellan si é rivelato vano. Intanto scorrono davanti ai miei occhi fantastici paesaggi rurali, piccoli villaggi e campagne dal sapore tolkieniano. Tutti i campi sono cintati da muri di pietra ricoperti di muschio. Le querce sono ricoperte di muschio. Il muschio ricopre ogni cosa. Ora stiamo costeggiado il Loch Fyne in questo pomeriggio soleggiato. Costeggiamo diverse Oyster Farms e l’appetito aumenta mentre corriamo lungo la costa tutta accesa e riverberata. Ridiamo pensando al prelibato piatto di Green Pussy Oysters che Jana giura di aver mangiato. Io non sono mai stato così sereno negli ultimi mesi come in questo momento. Per me potrebbe essere così da qui fino all’eternità… Abbiamo inoltre riso tanto rievocando nelle nostre chiaccherate leggere il “This Is It” che Jacko ha pronunciato un paio di giorni prima a Londra in conferenza stampa. Marcissimo, bianchissimo e assolutamemnte extraterrestre. Arriviamo a Kennacraig alle 17 e 30. Termine ultimo per l’imbarco. Tutto é assolutamente perfetto. Il sole sta tramontando proprio davanti a noi, in linea con il Loch Tarbet che navigheremo fino ad arrivare in mare aperto. Ci imbarchiamo e saliamo immediatamente sul ponte per assistere alla partenza. Sono appena riuscito a contattare Iain per telefono e mi assicura che la cena sarà pronta al nostro arrivo a Port Charlotte. Mi godo l’aria fresca e salmastra mentre guardo le rive del Kintyre che si allontanano. La mente si libera, spariscono le preoccupazioni e mi lascio cullare dal mare. Torniamo tutti in coperta e stappiamo un paio di pinte di fantastica Finlaggan Ale. L’attraversata procede tranquilla mentre il sole si affoga in un cielo rosso proprio davanti a noi. Ritorno sul ponte a guardare la schiuma del mare. Mi sembra di essere sempre andato per mare, é come se mi vedessi da lontano, assolutamente a mio agio, totalmente in simbiosi con il mare. Si apre una voragine nella mia mente. Un mattone duro di pensieri, un blocco argilloso si sgretola, si scioglie e frana in acqua.

Arriviamo a Port Ellen alle 8 e 30 di sera. E’ tutto buio intorno. Scendiamo dalla rampa che ci porta sulla terra ferma, passiamo accanto agli stabilimenti per la maltatura che si trovano accanto alla oramai defunta distilleria di Port Ellen. L’aria nell’oscurità profuma già di torba bruciata. Ci sentiamo tutti un po’ torbati. Attraversiamo una misteriosa campagna avvolta dal buio e dalle nebbie portate dal mare.

Arriviamo infine a Port Charlotte. Due file di case bianche delimitano la strada e sulla nostra destra si intravvede l’insegna dipinta del Lochindaal Hotel. Ci precipitiamo all’interno affamati e assetati. Ci accoglie immediatamente Iain con quattro whisky. Non ci poteva essere riservata accoglienza migliore. Io sto bevendo Bunnahabain e sono contento. Prendiamo subito posto a tavola e in pochi minuti incomincia l’apoteosi gastronomica! Iain entra con una teglia stracolma di cozze, quasi ridicola tanto é traboccante. Cominciamo a mangiare abbastanza avidamente e obbiettivamente quasi già solo questo vassoio potrebbe bastare, ma intanto abbiamo spazzato tutte le cozze e cominciamo a fare zuppetta con enormi fette di pane nella salsa di pomodoro e mare che é rimasta. Ritorna Iain con quattro piatti quasi eleganti a base di riso verdure e filetti di un pesce sconosciuto. Fantastico! Stiamo accompagnando il tutto con magnifiche pinte di birra.

cozze
Al termine dei filetti Iain ritorna con altri quattro piatti stracolmi: mezzo astice con rispettiva ovulazione, un grande granchio con ripieno affogato nel burro, e poi scampi, enormi chele da svuotare e sottofondo di insalata. Direi quasi impossibile da terminare ma fino a qui é stato tutto veramente piacevole. Anzi una goduria. termina la cena e decidiamo di andare a concludere la serata con un po’ di buon whisky al bar del Port Charlotte Hotel, dall’altra parte della strada. Non abbiamo che l’imbarazzo della scelta con una notevole carta dei whisky. Comiciamo ad essere tutti veramente stanchi adesso. Credo di aver bevuto un Caol Ila di 25 anni.

E’ oramai l’una del mattino qua sulla sponda destra del Lochindaal e decidiamo di andare a dormire. Sono in stanza con Jana. Pat e Eero scompaiono da qualche altra parte dell’albergo.

Sono stanchissimo ma non posso fare a meno di percepire un gran casino proveniente dal bar del Lochindaal Hotel che si trova proprio sotto la nostra stanza. Qualcuno si sta divertendo molto al piano di sotto. Una voce supera tutte le altre. Una risata fragorosa scoppia ogni trenta secondi.

Domani mattina la conosceremo. Sto franando come una merda, mi sento pesantissimo, continuo a sentire il gran casino ma non ho più energia neanche per farmi disturbare. Ad ogni mio movimento il materasso risponde con un concerto di molle arrugginite. Fantastico. Una finestra tutta appannata e sferzata dal vento lascia intravvedere un piccolo chiarore distorto alla mia sinistra. Una grossa crepa la attraversa in diagonale dall’alto al basso. Il vetro é già completamente bagnato e ricoperto di gocce d’acqua che poi quando sono pesanti scivolano verso il basso seguendo degli strani percorsi che io vorrei capire ora, ma non ho le forze. Quando giungono al capolinea si raccolgono in un angolo decorato con qualche vecchio deposito di polvere e merda. Il tutto forma uno schifoso impasto che domani mattina Gianluca dovrà assolutamente vedere. Verde. Il verde domina. Intanto quelle particolari risate fragorose continuano a sovrastare il vociare sottostante.

OUT !

E’ la mattina dopo. Mi alzo abbastanza fresco. Anche Gianluca segue senza esitazione. Scendiamo al piano di sotto e attraversiamo il pub desolato con un’inferiata che protegge il bancone e tutti i suoi preziosi tesori. La porta principale é aperta. Prima in camera sentivo sibilare un forte vento ma nel momento in cui apro la porta vengo colpito da delle potenti raffiche gelide. Grossi banchi di nebbia vengono spinti su dal Lochindaal e scivolano tra le case bianche. L’atmosfera é bianca – grigia – gelida – desolata. Capisco in pochi secondi che questa é un isola sulla quale vivono uomini duri. Gente temprata da condizioni atmosferiche avverse. Solo i più tosti resistono.

alambicco
Cominciamo a percorrere la strada che risale lungo il corridoio di case di Port Charlotte. Passiamo accando al Port Charlotte Hotel e sulla sinistra, tra le case, si apre uno spiazzo. In fondo risveglia immediatamente la mia attenzione la sagoma di un alambicco posato in un cortile. Tutto scuro e ossidato, abbandonato. Lo scenario é fantastico. Continuamo a camminare. Superiamo un ponticello. Sempre a sinistra su delle grosse piante spoglie stanno apollaiati dei corvi. Poco più in la un prato sorprendentemente verde accoglie un piccolo cimitero. Proseguiamo dopo qualche minuto in aperta campagna. Ai lati della strada si estendono alcuni pascoli cintati a pietra, con magnifici muretti ricoperti di muschio. Un piccolo gregge di pecore ci guarda diffidente. Le voglio fotografare ma le spavento. Più avanti, sulle rocce che si buttano in mare si intravvede un faro. Il freddo mi entra tra le pieghe della giacca. Un freddo umido e salato. Di tanto in tanto ripenso alla cena della sera prima e tra me e me rido ancora. Esagerato! Direi che é ora di ritornare al Lochindaal Hotel e vedere se é possibile fare colazione. Ripercorriamo tutto il tragitto a ritroso e nella saletta del pub troviamo un paio di operai della British Telecom che stanno aspettando la colazione. Io e Gianluca cerchiamo di capire dove si trovino Pat e Eero. Attraversando il pub si esce in un viottolo stretto. Sulla destra ci sono le cucine dell’hotel e una grossa botte sta appoggiata contro un muro.

willieIncontriamo Willie che ci dice che Iain, il proprietario dell Hotel é “drunk” perché ha bevuto tutta la notte ma noi non dobbiamo preoccuparci perché lui adesso ci prepara la colazione. “I apologise, he’s drunk. He’s been drinking the whole night. Sorry guys! Relax! Enjoy! I’ll be ready in a minute.” Dalla voce direi che si tratta dell’ individuo che rideva al piano di sotto durante tutta la notte. Riusciamo infine a trovare la stanza di Pat e Eero. Ci dirigiamo tutti assieme a fare colazione. Sono le 8 e 30. Siamo seduti ai tavoli del pub e infine arriva Willie con i nostri piatti. Bacon, fagioli, pane tostato, salsicce, haggis, saguinaccio e quattro ciotole stracolme di burro. “Do you want some whisky?” Chiede Willie. Colgo la domanda distrattamente. Pensavo a tutto in questo momento tranne che ai Single Malts, sarà uno scherzo. Ma Willie é serio. “Come on. Don’t be shy, take it easy, relax, enjoy, take your time” Poi la famosa risata fragorosa, corre al di la del bancone e in un istante ci ritroviamo con cinque bicchieri di whisky (siamo in 4) accanto alle nostre fette di pane tostato. Io rido, Pat e Gianluca non ci stanno. Io e Eero ci guardiamo e ci diciamo “perché no…” Così tra una fetta di bacon fritto e una forchettata di fagioli lubrifichiamo con un po’ di Bunnahabain mentre Willie, che oramai é stato smascherato grazie alla sua inconfondibile risata, butta giù una budweiser mentre uno degli impiegati di British Telecom commenta: “He’s a funny man, in small doses.

mp3: Willie

Garlic 101

hotel
Quello che prima era quasi un profumo adesso é solo un tanfo. Soffocato e confuso. Nascosto dalla sbronza. Annebbiato dai vapori d’alcohol. Indecifrabile e abbastanza fastidioso. The Stinking Rose. Sono passato davanti alle vetrine di questo ristorante diverse volte. Sobrio, pensieroso, stanchissimo, ubriaco, semi-incosciente, indifferente, distratto, di giorno, di notte, col sole, con la nebbia, in estate, in inverno. Vabbé…
Adesso sono quasi annientato dall’odore. Mi sono appena sottoposto al supplizio morboso ma anche piacevole di un carpaccio di baccalà ammollato in salsa aioli e credo che il retrogusto mi rimarrà impresso per settimane, ma adesso direi pure per anni. Una vocina dietro l’orecchio mi dice di tentare con un po’ di Whisky dell’Islay. Ok ci provo.
Credo che abbia funzionato. Adesso sento una graziosa chitarra jazz. Pizzicata con leggerezza. Wes Montgomery forse. Senza plettro, col solo pollice inciampa leggero tra le corde, assolutamente padrone. Poi una tromba ammorbidisce l’aria con un suono vanigliato e mieloso. Sono dentro un pub con antichi banconi di legno iper-laccato e luci soffuse. Il fumo ammorbidisce i limiti delle mie visioni. Tutto é soffuso. Io mi sento sospeso in uno stato di puro piacere, una leggerezza armonica mi avvolge. L’ottone mi sollecita e la mia mente vuole consacrare questo momento che deve restare. Non si deve dimenticare. Dovrà stimolarmi sempre. Intanto qualche chit-chat confuso, slegato, melodioso e suadente. Lo sguardo é filtrato dall’ambra colorata che proietta le mie immagini sul muro. Amber Ale-o-rama! E’ tutto maledettamente ambrato qua dentro. Tutto dolce, e i fumi dei cigarritos salgono su fino al soffitto porpora. Gli stucchi laccati sono ricoperti da mille strati di vernice, dagli anni cinquanta ad oggi. Le pale del vetilatore girano lente tutto sommato. Poca aria si sposta tra un poster della Traviata e le immagini di Kerouac sul balcone con una grigia parete a mattonelle che egli fa da sfondo. In un cinema, giù verso il molo, sempre in Columbus Avenue, danno ancora La Dolce Vita di Fellini.
strada
Una moltitudine di persone, aggrovilgiate e indaffarate, scivolano veloci da un marciapiede all’altro. Mentre io cammino al rallentatore tutti gli altri corrono velocissimi.
Paaaackkkkk !
Un brutale risveglio. Un grosso lampadario di ottone precipita dal soffitto sul tavolo di fianco al mio.

101

In questo momento non so bene che scrivere. Sto cercando di scavare nella memoria. Sto trivellando nel cuore del cervello in cerca di un pensiero, un’immagine, un brandello di situazione da raccontare. Ma oggi il carotaggio dell’encefalo non sta dando risultati e così non trovo la strada. Mi sono perso in qualche cunicolo di questo budello. Ci provo comunque.
Certo é che la calma e la serenità che ci ha ispirato anni fa il Pacifico rimane forse un episodio isolato, durante la lunga discesa dal Canada, percorrendo la 101. Fu come viaggiare attraverso i quadri di Hopper. Una lunga discesa condita di grandi ascolti musicali, bevute memorabili e fantastiche cene, finestroni panoramici, the “Big Wheel”, l’hamburger più grande del mondo, la ruota della fortuna per vincere uno sconto al Morlock Hotel. Fu l’anno in cui gli Smashing Pumpkins vinsero tutto quello che era possibile vincere agli MTV awards. Vedemmo i microorganismi fluorescenti, di notte in spiaggia dopo aver brindato con Sierra Nevada Pale Ale di fianco ad un “bonfire” che qualcuno aveva misteriosamente preparato solo per noi…

mp3: Barley
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I feel so REAL!

Rich Franklin é seduto a bordo ring e si guarda sul maxischermo. Gli stanno pulendo un grosso taglio sopra la tempia destra. “That’s a bad one!” dice sorridendo con gli occhi alzati allo schermo. Che eroismo e che sense of humor!

Ma adesso sto pensando, in piedi alle 5 e 30 del mattino. Nel cuore del deserto. Bisogna alzarsi presto per cogliere quest’atmosfera… Si tratta di un momento unico. Arriva tutti i giorni ma lo cogli solo alzandoti presto la mattina. Specialmente nel deserto.

L’aria ha ancora quella freschezza che la notte le ha prestato. Cerco un luogo appartato, lontano da qualsiasi sguardo. E’ abbsatanza importante essere soli, avere la mente sgombra. Respiro a pieni polmoni quest’aria profumata che scivola sopra la terra. In questo istante é chiaro il mio ruolo sulla terra. E’ uno di quei rari momenti in cui conosci il senso della tua presenza terrena. Sai di far parte del pianeta. Tutto é in armonia. La mia presenza ha un’importanza assoluta e indispensabile. Raramente colgo l’equilibrio e il significato della mia esistenza come in questi momenti. So solo che capita ogni tanto, inaspettatamente. Capita. Scruto il suolo.”Egli raccolse” deve pur significare QUALCOSA. Il mio nome ha un senso che in questo momento diventa più chiaro. Tutto ha senso adesso. Ogni granello di sabbia, io che setaccio il suolo, che do importanza ad ogni rugosità, ad ogni pietra, ad ogni mucchietto di sabbia. Alzo lentamente lo sguardo… Voglio celebrare il meraviglioso confine tra il cielo e la terra. Mi faccio portavoce della razza umana in questo istante. Voglio celebare il pianeta. Come un alieno che dopo un periglioso viaggio attraverso le galassie giunge nella meravigliosa serenità della terra incontaminata. Questa sensazione rende un’ emozione commovente, eterna. Mi rimprovero di non aver provato più spesso questo sentimento puro… Come l’arrivo su di una spiaggia dopo settimane di deriva in mare. La venerazione! La gioia. il sollievo.

Poi un tentativo altrettanto commovente di comprendere il lavoro del tempo, il segno del tempo sulla terra. Faccio una panoramica a 360 gradi sulle montagne che mi circondano. Cerco di comprendere il senso delle stratificazioni che le distinguono. Penso al mio momento di solitudine in un’eternità immobile. Io sono una virgola in questo discorso infinito. Un’ infima alterazione di questo percorso rallentato. E’ il ricordo di un tempo in cui la musica dei Counting Crows era l’unica colonna sonora della mia vita. Un tempo in cui io ero più buono. Io sono stato un essere migliore, più armonioso, più contemplativo. C’ é un un colle tra Lukeville e Why nell’ Arizona profonda. Ho raggiunto la cima di quel colle un paio di volte nella mia vita. Ho visto la terra da lassù. Un paio di volte nella mia vita ho visto la terra. Mi sono capito. Un paio di volte ho quasi capito il motivo della mia presenza. Poi, trascorsi alcuni giorni, mi sono scoperto di nuovo vulnerabile e perso nella vastità losangelina. In una solitudine lynchiana. Mentra percorrevo Mulholland Drive. L’ultima immagine che voglio ricordare oggi é quella dei delfini che si spingevano al largo dal pontile di Santa Monica. Avevo appena abbandonato il puzzo di vomito nella stanza del Travelodge di Santa Monica. La mia esistenza era ripartita da capo due sere prima. Era come se fossi rinato una seconda volta. O meglio, come se avessi perso tutto il mio passato. Pat aveva perso il suo passato. Eravamo rinati. Le nostre esistenze si erano resettate senza che ce ne accorgessimo. Erano bastate un paio di tequile e qualche paio di “titties” sventolate in faccia ed eravamo rinati. Un barbone che passava due giorni di fila giù in strada era diventato la prova vivente che le nostre esistenze avevavo preso un’altra strada. Avevamo compreso qualcosa di nuovo.

Una nuova luce si gettava sulle nostre esistenze, la luce che vedi un pomeriggio insignificante mentre stai mangiando una grigliata di carne mista in Melrose Place mentre pensi che tutto sia ricominciato in questo istante. Mentre firmi con sicurezza uno scontrino con tanto di tip per una cameriera che non conosci ma della quale credi di aver compreso tutta la disperata vita.
“Awake on my airplane, awake on my airplane” canta Richard Patrick “And I fell like a new born” ripete. “Awake on my airplane, awake on my airplane, I feel so REAL!!!!”
Così mi sento!
ORA!

Caleidoscopio

Devo assolutamente tornare nel deserto. In questo momento ne ho un bisogno assoluto. Devo stare sulle pietre rotonde in mezzo al deserto. Devo sentirmi cuocere la testa nel silenzio mentre saltello da una pietra all’altra. Vorrei rosolare. Vorrei ubriacarmi nel deserto. Vorrei svenire nel deserto e dormirci dentro. Vorrei rotolare nella sabbia e avere sete. Vorrei contemplarlo adesso. Camminarci dentro. Ascoltarlo. Stonarmi e andare in trance nel deserto. Vorrei vedere delle luci caleidoscopiche e delle creature mitiche fatte di paglia. Il cielo potrebbe diventare verde e la terra prendere tutta la scala dei rossi mentre faccio le flessioni con le lucertole. Dondolo la testa lentamente e intanto danzo.

mp3: Kaleidoscope
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Borrego

Mi ricordo che due anni fa, catturato da una specie di raptus da sovraccarico lavorativo, cercavo un po’ di sollievo viaggiando digitalmente sulle pagine di www.desertusa.com. Io ho visitato quasi tutti i parchi desertici del sud-ovest degli Stati Uniti percui cercando spunti per un viaggio futuro capitai sulla pagina dedicata all’Anza-Borrego Desert State Park, un enorme parco a est di San Diego che si estende fino alle acque del Salton Sea. Mi convinceva. Decisi di ricordarmi di questo nome.

Trascorre qualche mese e sto correndo con una Nissan Xterra lungo le strade dell’ angolo basso di California. Come sempre capita, devo assolutamente passare per luoghi che portano nomi incredibili che evocano immagini mitiche nella mia testolina: Tucson, Yuma, Calexico! Che successione! Che strada! Che Tris! Partendo da Tucson io e Eero chiaramente scegliamo di non percorrere la Interstate 10 che ci porterebbe ad ovest più speditamente ma prendiamo la Hwy. 86 che ci spara verso verso il deserto di Sonora, verso la Frontera. Qualche anno prima percorrevo la stessa strada con Pat e un paio di litri di birra in corpo mentre la radio mandava “Cherub Rock” degli Smashing Pumpkins. Porto a casa i fantastici ricordi del tramonto ad Ajo. Il lungo trail a ridosso delle Diablo Mountains nell’Organ Pipe Cactus National Monument. L’agitazione delle Border Patrols sempre a caccia di trafficanti e clandestini. Poi più avanti verso ovest le maestose dune di sabbia di Yuma. E la luce assolutamente strabigliante che ci accoglie, un tardo pomeriggio, risalendo da Calexico in direzione di Indio, nella Coachella Valley. Mi ricordo questa strada drittissima con un sole bassissimo che proietta un’ombra lunghissima della nostra auto. La radio trasmette musica da “La Rumorosa, Baja California”. Ai lati della strada giganteschi muri di balle di fieno e campi sterminati percorsi da lunghe file di spruzzatori automatici per l’irrigazione. Poi giriamo a sinistra passando a ovest del Salton Sea.


Entriamo nell Anza-Borrego Desert State Park all’inbrunire. Ci fermiamo e ci guardiamo attorno. Comincia ad essere un po’ buio per poter godere del paesaggio. La strada é deserta e davanti a noi parte perpendicolare una deviazione sterrata con un cartello che ci sconsiglia con decisione di proseguire “Absolutely no trespassing”.
Tiriamo dritto e cerchiamo con gli occhi di indovinare un luogo che si addica ad una spettacolare sessione fotografica. Dopo ogni dosso potrebbe aprirsi uno scorcio spettacolare. Trascorrono i minuti, si fa sempre più buio, non troviamo nessun panorama mozzafiato ma capitiamo a Borrego Springs, un’inquietante cittadina persa nel nulla con un enorme campo da Golf, un Country Club, un Mall e nient’altro. Ho la sensazione che ci si trovi su di un set cinematografico con le facciate delle poche case vuote che cercano di ingannarmi e di convincermi che qui ci abiti qualcuno mentre di dietro non c’é niente. C’é l’ufficio postale ma non c’é nessuno. Arriviamo in quello che potrebbe essere il centro di questa cittadina (anche se qui in America le città non hanno centro). Le aiuole sono curate, c’é una rotatoria con una bella erbetta verde e anche qui non c’é nessuno. Giriamo e torniamo indietro. Tutto mi fa pensare ad una “ghost town” ma le ghost town non hanno campi da golf. Inutile cercare un Motel. Usciamo da Borrego Spring e ci dirigiamo verso Salton City sulle sponde del Salton Sea.

La discesa é magnifica e rilassante. Le ultime luci si riversano nella valle e in fondo già si vedono le prime luci di Salton City. Cominciamo ad avere fame e siamo moderatamente stanchi. “Welcome To Salton City” ci annuncia un cartello dopo alcuni minuti. Ma le prime luci di Salton City sono anche le uniche. Girovaghiamo per il fitto retticolato di strade vuote di questa cittadina piuttosto spettrale. Ci sono le strade ma non le case.

Per cogliere lo spirito desolato di questa cittadina spettrale consiglio le magnifiche panoramiche di Will Pearson oppure il magnifico documentario Plagues & Pleasures on the Salton Sea con la fantastica musica di Friends Of Dean Martinez

Lasciamo Salton City e ci dirigiamo verso Indio. La giornata si conclude davanti ad una bistecca di 22 oz.

mp3: Borrego

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Buio nero

E’ inutile stare lontani dalla scrittura. Prima o poi lo stimolo ritorna. E’ un po’ come cagare e adesso io sono sulla tazza perché nelle settimane passate ho mangiato molto, anzi troppo ed é dunque giunto il momento di fertilizzare questa pagina con una bella spalmata di parole. Qualche sera fa rientravo dal lavoro. Era già buio nero e ripensavo alla musica suonata di recente. Ci pensavo distratto, però. Tanti pensieri, come trenini elettrici, entravano nelle gallerie della mia testa, da tutte le parti. Guidavo addirittura sconcentrato – male – mentre il parabrezza si appannava e i bagliori della strada si allargavano. “Fa freddo dentro sta cazzo d’auto, cristo! Ma non si scalda?”
Stavo pensando veramente ancora ai vecchi mixtapes che preparavo per gli amici fino a qualche anno fa.

Ricordo che per completarli, quando rimanevano pochi secondi alla fine del nastro (non sopportavo gli spazi vuoti), componevo qualche stravaganza musicale, del rumore strutturato o qualche improbabile ballata alla chitarra e toppavo questi buchi. In seguito presi l’abitudine di prepararmi una valanga di nastri tematici ogni volta che partivo per le mie innumerevoli scorribande americane:

Nastro Serale
Nastro California
Nastro Deserto – Eroina
Nastro Deserto – Cooder
Nastro Sud-Est
Nastro Texas
Nastro New York

e via così.

Ora però é buio, ripeto, sono in macchina e sulla SD card dell’autoradio ho caricato i brani di questo blog in MP3 (“Ma quanti gesti ho dimenticato?” Mi fa ricordare uno spot televisivo). Partono le note tranquille di “The Attack Of The Killer Jackalope From Outer Space” e ritrovo la concentrazione. Mi dico e mi ripeto che la musica riempie la mia esistenza e ritorno a casa sereno.

Bishop

Qualche settimana fa il mio amico Enrico scriveva che non si é mai amata veramente la musica se non ci si é immersi, un giorno o l’altro negli oramai lontani anni 80, nella preparazione di un mixtape. Non c’entra molto con ciò che sto per scrivere ma in ogni caso lo dico: non si può amare veramente la California senza aver amato le magiche armonie dei CSN. Impossibile! Credetemi! Come fai ad andare in California senza avere in testa le melodie di Wooden Ships, o le armonie di Tamalpais High? Impossibile. Per me si tratta di un esercizio impossibile. Un po’ come visitare N.Y.C. e il suo Greenwich Village senza pensare a tutto il Folk e il Jazz che li si é suonato.
Ma quante cazzo di volte sono stato a San Francisco?

mp3: Isadora Lane
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Ora siamo a Bishop e sono felice quando arrivano le chips di mais e la salsa in questa tavola calda messicana. E’ anche arrivato un sontuoso burger, enorme, traboccante di grasso. Ciò di cui ho assolutamente voglia in questo momento. Con un paio di cetrioli, qualche foglia d’insalata e due fette di pomodoro. Il tutto annaffiato da una fresca Tecate. Degli orrendi quadri adornano le pareti di questo locale in cui siamo i soli clienti. Una waitress messicana ci guarda incuriosita, sorridendo poi ci porta altra acqua. Le strade di Bishop sono tranquille in questo pomeriggio caldo. Una Harley tutta cromata passa rombando mentre io quasi imbambolato la seguo con lo sguardo per tutta la strada.

mp3: Discesa
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