Route 66 – Joplin, Missouri, dopo il tornado

La perlustrazione della route 66 é cominciata tranquillamente questa mattina con una partenza rilassatissima da Springlfield, Missouri in direzione del confine con l’Oklahoma con un breve passaggio in Kansas. Ho ammirato le pompe di benzina restaurate di Spencer MO, Galena KS e Commerce OK, poi anche un bellissimo Drive-in a Carthage, MO.

Dopo avere scattato delle foto a questo cinema all’aperto proprio mentre sto risalendo in automobile si avvicina un signore. In questi casi sei sempre pronto a sorbirti una qualche lamentela per qualche misterioso motivo e allora mentre questo signore si avvicina già mi preparo mentalmente alla mia difesa. Con mia sorpresa il signore si avvicina addirittura solo per ringraziarmi di aver rispettato i divieti di passaggio attraverso la sua proprietà che erano comunque più che chiari. Mi chiede subito da dove arrivo. Questo giochino lo fanno tutti qua, sempre, non appena ti avvicinano, per avere smentite o conferme in merito a qualche loro convinzione sul comportamento degli stranieri sulla loro terra. Il proprietario del cinema mi dice che senza dubbio i turisti più indisciplinati sono i francesi seguiti a ruota dai tedeschi. Lo ringrazio anche io e parto alla volta di Joplin a poche miglia dal confine con l’Oklahoma. Due anni fa presi la 66 proprio in questa cittadina arrivando da Little Rock ma oggi mi avvicino con un po’ di inquietudine. So che il 22 maggio scorso Joplin é stata devastata da un tornado e ho veramente voglia di andare a dare un’occhiata.

Questo é quanto é accaduto il 22 maggio 2011:

Arrivo a Joplin ed entro in città percorrendo la 66 lungo la strada principale che sfoggia con orgoglio due file di palazzi d’epoca in mattonelle rosse. Tutto il centro é ordinato e pulito e anche elegante. Giro la testa un po’ da tutte le parti per vedere se riesco a scorgere i segni del passaggio del tornado ma non vedo nulla. Ad un certo punto la 66 gira a destra e nonostante io voglia seguirla, continuo dritto sperando di trovare qualche segno del tornado più avanti. Mi tengo a mente il nome della strada per ribeccarla al mio ritorno e comincio la salita verso una collina a sud del centro. Tra me e me mi dico: “chissà dove sarà passato il tornado, magari in qualche quartiere in un angolo di periferia, e vallo a trovare…”

Non faccio in tempo a terminare il mio pensiero che in un secondo mi accorgo di essere entrato in un altra dimensione. Non ci credo. Solo 5 secondi prima stavo ammirando gli eleganti edifici, sedi di banche e compagnie assicurative e adesso in un attimo ci sono cumuli di macerie ad entrambi i lati della strada. Giuro che mi sono corsi i brividi lungo la schiena. La devastazione oltre il culmine della collinetta é totale e c’é come una linea che delimita le case che si sono salvate da tutto il resto. Oltre quella linea non é rimasto in piedi niente per una striscia di devastazione che davanti a me, lungo la strada che sto percorrendo si estende per circa un chilometro, mentre a destra e a sinistra a perdita d’occhio.

Questo é ciò che ho filmato oggi primo luglio, 5 settimane dopo il passaggio del tornado:

Una cosa che mi sconvolge sono gli alberi ai quali sembrano esser stati strappati tutti i rami. Sono addirittura scortecciati, ci sono centinaia di volontari che stanno sgomberando le macerie e passato un momento di sconvolgimento mentale mi infilo in una via laterale dove parcheggio. Prendo cavalletto e macchina fotografica e comincio a camminare abbastanza sgomento. Molte strade sono bloccate e dunque mi avvicino ad un volontario per chiedergli se posso scattare delle foto. Non vorrei urtare la sensibilità di nessuno. Ci sono famiglie che ancora stanno tirando fuori dalle macerie le proprie cose e mi devo ricordare che qui cinque settimane fa sono morte 150 persone. Nessun problema mi dice e allora comincio a girare. In diverse zone c’é un forte puzzo… é puzza di cadavere, é così… ma saranno probabilmente animali rimasti intrappolati sotto le macerie, chissà.

In giro per strada c’é di tutto, libri, cd, orsacchiotti di peluches, sedie, roba rotta, lamiere attorcigliate, scarpe, vestiti. I volontari stanno lavorando a 38°C all’ombra, dei veri eroi.

Route 66 – Missouri

Ancora a Springfield ma questa volta in Missouri. Oggi ho percorso esclusivamente Route 66 e dunque non mi so o spostato troppo a sud ma ho percorso molte strade di campagna e a tratti anche del magnifico sterrato.

Sono entrato in un ristorante messicano qui sulla 66 e ho ordinato una sontuosa enchilada agli spinaci, poi ho chiesto una birra e la cameriera mi ha dato due opzioni che non ho capito ma ho scelto la seconda e mi é arrivato in tavola un boccale di Dos Equis da un litro! Adesso sto assistendo ad un curioso spettacolo. Stanno entrando una dopo l’altra solo orrende famiglie XXXL, ma veramente. Roba da 200 kg a persona. Ma é assurdo! É una candid camera e fra un attimo esce da dietro un angolo Davide Mengacci. Sembrano tutti personaggi di Wall-e della Pixar, con la razza umana che a forza di non fare un cazzo e mangiare tutto il tempo é diventata obesa e flaccida. Io sono anoressico. Che strano quadretto qua dentro. Le cameriere tutte esili che corrono a destra e a sinistra attorniate da questi pachidermi gringos che mangiano fino a scoppiare. Ma quanto cazzo mangiano sti americani? Puttana quanto si mangia in questo paese. Certo che se vivessi qua diventerei sicuramente mostruoso nel giro di pochi anni. Mi sembra quasi di assistere a quella mitica scena de Il Senso Della Vita dei Monty Python solo che non ce n’é uno solo, sono circondato da potenziali ordigni umani, gavettoni di budella e cibo masticato e parzialmente digerito. Se esplodessero tutti annegherei.

Oggi in auto mentre guidavo ho mangiato una specie di salsiccia rossa a bagno nell’aceto (Fire Cracker The Original Giant Red Hot Pickled Sausage, 1.7 oz il suo nome completo) confezionata in una plastica con disegnato sopra un petardo. Insomma sto provando un po’ tutte le schifezze che mi capitano tra le mani e questa per il momento vince.

Route 66 – Illinois, Missouri

Oggi un bel tappone e già sono arrivato sulla 66. Incredibile! Ho anche cambiato fuso orario e sono entrato in uno sconfinato cielo azzurro questa mattina, poco prima di mezzogiorno quando sono entrato in Indiana. Tutto piattissimo e solo mais ovunque. Adesso sono a Springfield, state capitol dell’Illinois, tutta bella ordinata con un tentativo tutto americano di renderla un po’ monumentale. Il Campidoglio svetta infatti elegante su tutte le costruzioni. Questa é pur sempre una città storica. Domani comincia la discesa lungo la strada madre alla ricerca della “rüdera”. Non vedo l’ora di fotografare un po’ di rovine, case abbandonate e pompe di benzina fatiscenti.

Qui alla Brickhouse Grill & Pub nell’historic district di Springfield, la città di Burt Simpson, sto bevendo la seconda Sierra Nevada, alla tele mandano le immagini di uno sport per coglioni, come solo in USA sanno fare. Si chiama “skyball” e sembra un po’ la pallacanestro ma invece dei canestri ci sono tre bersagli appesi al tabellone che bisogna colpire con una palla più piccola.

Eh ma che bello! Sabato prossimo UFC a gogo! Wanderlei Silva contro Chris Leben, Ortiz contro Bader e Faber contro Cruz. Intanto é arrivato in tavola un bel piatto. Veri broccoli e cavolfiore con un bel filetto di tonno. Magnifico!

Oggi sto dedicando la giornata alla perlustrazione approfondita della Route 66 tra Springfield e St. Louis. Sto percorrendo un reticolo di strade deserte ritagliate attraverso i campi di mais vastissimi che ricoprono tutta la terra disponibile. In alcune tratte la 66 è addirittura pavimentata a mattonelle di terra-cotta rossa. Adesso sto aspettando un paio di slices di pizza seduto in un ristorantino nella piazza principale di Carlinville.

Benissimo, gincane sospese, mi sono rifugiato in un pub qui a downtown St. Louis in Missouri, dove sono giunto questo pomeriggio percorrendo esclusivamente lentissimi tratti di 66 degli anni ’30 e ’40. Questa città é enorme e trafficatissima percui non é stato un avvicinamento molto rilassante. Poi dopo aver depositato tutto il mio merdame all’Holiday Inn, con il cavalletto in spalla sono andato ad ammirare il Gateway Arch che svetta accanto alle rive del Mississippi.

Una costruzione in metallo sottile ed elegante ma anche maestosa e imponente al tempo stesso, come imponente e pacifico scorre questo enorme fiume che ancora sta trascinando a sud un sacco di detriti. Deve essere successo qualcosa nelle settimane passate perché la strada bassa che costeggia il fiume é tutta allagata e l’accesso é transennato.

Questa é la merda che mi sono mangiato questa mattina in auto. All’inizio sembravano buonissimi, col caffé, poi avevo voglia di ficcarmi due dita in gola e vomitare. I Twinkies sono ripieni di una crema come quella che trovi nei moretti di cioccolato da noi e sono ingestibili in auto mentre guidi. Hanno il potere misterioso di rendere in un istante tutto appiccicosissimo. Le Donettes, d’altro canto, ricoprono ogni superfice visibile di zucchero a velo finissimo; vestiti, volante, tappetini, cruscotto e poltrone.

Kentucky

Din – Don – Dan!
Adesso é ufficilamente cominciato il mio nuovo viaggio. Alle 16.04 venerdì 24 giugno. Ora mi offro un altro rito quasi obbligatorio ogni volta che prendo il treno per partire verso una delle mie destinazioni tradizionali: una bella birra gelata che bevo di gusto adesso alle 17.00 anche se il rito prevede che che io beva indipendentemente dall’ora di partenza. Che siano le 6 del mattino o le sei di sera non fa alcuna differenza. Salute.

Si passa accanto alla Valascia, la pista di ghiaccio dell’Hockey Club Ambrì Piotta e penso che qualche anno fa con gli amici si spergiurava e imprecava platealmente durante questo passaggio, adesso invece penso che ho dei ricordi solidi legati a questo posto, alcune epiche sfide tra HCAP e HCL alle quali ho assistito in passato, in inverno. Oppure ancora le interminabili soste all’arsenale militare durante una lontanissima estate degli anni 90. Oggi ho pensato solo a questo passando attraverso Ambrì Piotta. Sto veramente invecchiando.

Mövenpick Airport Hotel all’aeroporto di Zurigo e aspetto un grilled salmon seduto ad una specie di bancone stile tavola calda americana con un cinese seduto di fronte a me che comunica esclusivamente in cinese, non capisce neppure informazioni semplicissime come “hallo, hi, thank you, bon appetit, bye”, niente, non comprende niente.

Oggi al terminal E ho probabilmente visto la più vecchia hostess della terra. Vola Delta e volevo veramente fermarla per chiederle l’età ma mi sono trattenuto. Ad occhio ho stimato 80 anni, tutti, e portati male.

Bene! Prima birra da mezzo alle 09:00, come ai vecchi tempi. Gli aeroporti sono una figata e un’ altra cosa che ho notato ieri, pure una gran figata, sono quelle misteriose botole sotto la pancia dei viadotti autostradali. Mi hanno sempre intrigato.

Questa mattina ho utilizzato un deodorante ascellare al sudore. Giuro che non sono io ma il deo Roll-on. Mi sono anche fatto una doccia e la maglietta che indosso é linda, come nuova, dunque non mi spiego il puzzo.

E’ incredibile constatare come dopo questo primo mezzo tutto appaia migliore! Parte il secondo mezzo. Santissimi boschi, croce svizzera sullo sfondo di alpi innevate, chissà quanto dovrò pisciare tra un momento, ma mi importa sega perché sto entrando nuovamente , dopo alcuni anni, nella magnifica fase del “non me ne frega più un cazzo di niente”. La libertà totale, assecondata dall’alcohol però. Ma io quasi quasi adesso mi sparo 4 xanax!
🙂 scherzo ovviamente. Non lo faccio. Non sono nemmeno in ansia. Stanno caricando il Gate Gourmet e fra un paio d’ore sarò in volo ascoltando Die By My Hand dei Coroner, probabilmente. Sono ufficialmente sedato, thanks to Feldschlösschen. Tutto bello adesso, mi sento snello ora, leggero come un gavettone d’elio urinante.

Qui a bordo c’é un’hostess che sembra una homeless mentre ascolto Pure Prairie League che cantano Kansas City Southern e mando giù un buon merlot del Cile. Il cibo qua a bordo é veramente imbarazzante. Un petto di pollo accettabile annegato in una pastina di quelle che ti davano in brodo da bambino quando eri malato, ma invece del brodo qui ci é stata inflitta una salsa al pomodoro pH 1, tipo acido gastrico, ecco, così, si tratta di una deliziosa pastina all’acido gastrico, poi c’é un panino quasi caramellato con un burro strano che ha la consistenza del mastice per gli stucchi. Ci sono delle scritte in cirillico sulla confezione. Infine un muffin alla cannella, mollissimo, che ti si sbriciola in mano. Ma torniamo alle hostess. Età media 65 anni e oltre alla homeless di colore c’é anche un’alcolizzata settantenne bonda tinta, ex-figa cinquanta anni fa, che ora vive di ricordi e barbiturici, così a stima, solo guardandola. L’unico schermo dello scompartimento schweine class, lontanissimo, sta trasmettendo un film troppo di merda che mi ero rifiutato di scaricare gratis tempo fa: la storia di un biondino fighettino che diventa tutto pelato, con la faccia percorsa da rigagnoli di slicio metallizzato per qualche misterioso motivo pure fluorescenti, e nelle intenzioni del regista dovrebbe apparire come mostruoso questo coglione che invece fa cagare il cazzo ma siccome le cuffie che servono per seguire questa merda di film sono a pagamento mi consolo ascoltando Pure Prairie League, Country Rock anni settanta che meglio di così é veramente difficile suonarlo.

Un tipo americano qui vicino al mio seat ha delle braccia larghe come le mie cosce. Faccio affidamento su di lui qualora fosse necessario placcare qualche pazzo su questo aereo. Ho fiducia in lui!

Ah, mitica prima giornata di perlustrazini kentuchiane cominciata alle 8 sotto una pioggia diluviana con lampi e tuoni a far da contorno. Sono dunque partito alla volta di Frankfort alla ricerca di ciò che resta della Old Taylor Distillery della quale ho scoperto l’esistenza solo alcune settimane fa seguendo un forum di entusiasti del Bourbon su internet (bourbonenthusiast.com)

Comincio a percorrere alcune strette stradine di campagna. La pioggia mi da un po’ di tregua e l’asfalto corre anguillesco davanti a me, tutto soffocato dalla vegetazione. Dopo qualche curva appare finalmente la distilleria, bellissima, abbandonatissima, in rovina, cupa.

I muri sono ricoperti dai rampicanti, i vetri sono rotti e i grilli fanno baccano. E’ l’unico rumore in questo sperduto angolo di Kentucky. Comincia anche a fare capolino qualche raggio di sole e l’atmosfera diventa pesantissima: umidità a mille, asfalto spaccato, maglietta appicicata, afa, botti rotte a terra, ferrame arrugginito, vernice scrostata, insetti, strani rumori dalla boscaglia. Intanto infrango alcuni divieti di trespassing per godere fino in fondo quest’aria inquietante che mi offre il luogo.

In seguito, lasciate le rovine dell Old Taylor continuo per alcune miglia lungo la stessa stradina che percorre la Woodford County fino alla Woodford Reseve Distillery dove faccio un tour completo della struttura.

E’ sera e ho appena finito di cenare at The Old Talbott Tavern nel centro di Bardstown. Un antico edificio risalente al 1779 circa e dopo aver cenato con un burger accompagnato da un’ottima Kentucky Bourbon Ale, sto digerendo con un Rowan’s Creek Single che declina alla perfezione la mia prima vera giornata di Kentucky.

Ma quanto é giusto ascoltare un buon concerto di Bluegrass nella Bluegrass region? Esco ora dal Kentucky Theater dopo aver assistito al concerto di Doyle Lawson & Quicksilver anche se il palco é stato un po’ rubato da questa famiglia di prodigi, la Daniel Patrick Family, con Daniel (16 anni), la sorella Samantha (13 anni) e il piccolo prodigio di 9 anni Kyle Ramey, col cappello da cowboy che suona il mandolino come un professionista incallito e ha una presenza scenica assurda.

Duetta con Doyle Lawson per nulla intimorito e Doyle é sbalordito. All’uscita compero il CD di questo micro-prodigio e me lo faccio autografare da questo bimbo alto un metro e uno sputo. Da morire dal ridere. Poi il CD della famiglia al completo lo firmano anche il fratello e la sorella più grandi.

Giornata perfetta oggi in KY. Partito questa mattina da Bardstown (la capitale del Bourbon) ho fatto ottimi scatti a Loretto presso la Maker’s Mark Distillery, dopo Buffalo Trace sicuramente il tour più personale e bello. Posso scattare le mie panoramiche in tutta tranquillità da solo nella still room e di fianco alle vasche di fermentazione che ribollono magnificamente, colme fino all’orlo di birra. Il caldo é insopportabile, veramente allucinante qui dentro. Mi concedo pure tutto il tempo che mi serve per scattare una panoramica della wharehouse.

Poi dopo un oretta raggiungo anche la Four Roses Distillery, la meno forte delle distillerie visitate, con un tour troppo breve e una struttura un po’ troppo nuova e dunque esteticamente meno ammiccante.

NYC – ricordi

Già stanco morto alle 7 del mattino all’aeroporto di Zurigo Kloten in attesa del mio imbarco. La campagna zurighese era avvolta dalla nebbia questa mattina. Mi sono svegliato alle tre del mattino e sono partito da casa alle quattro meno venti.

Il team, oltre a me, comprende Ilario e Ivan, ai quali farò un po’ da guida turistica.

Il volo da Zurigo a Monaco é stato una sciocchezza, 15/20 minuti. Prima del boarding a Monaco devo assolutamente procurarmi della sana birra tedesca. In un chioschetto vicino all’imbarco per NY ci sono delle ammiccanti lattine di birra che mi stuzzicano. Me ne prendo una da mezzo litro  con una confezione di Kinder Ferrero giganti. Chiedo alla cassiera se devo berla li sul posto o se posso portarmela con me in aereo (mi faccio dei problemi da solo pensando che possa essere pericolosa nel senso che magari un malintenzionato sarebbe in grado di confezionare un’arma aprendo e piegando diabolicamente la lattina).

Puoi prenderne altra, mi dice la ragazza. Ah! Magnifico. Ritorno al frigorifero prendo un altro mezzo e ritorno alla cassa. Ma guarda che puoi prenderne ancora, mi dice lei. Io chiudo tra un attimo, prendine ancora. No, per adesso va bene così, me ne bastano due. Devo comportarmi bene. Lei sorride e mi dice: Si vede che non sei bavarese!

Chicken or Beef? mi chiede l’hostess. Arriva il pranzo con la consueta domanda. Io li prenderei entrambi, sono affamato come una faina a digiuno. Ma tra qualche ora potrò finalmente affondare i denti in un succulentoo burger cotto come si conviene su una bella piastra oliata, mentre seduto al bancone mi scolo una Sam alla spina.

Cazzo! Sono decisamente troppo lucido adesso mentre scrivo. Ok, mi son messo le cuffie e sto ascoltando un po’ di musica e dopo una marea di bluegrass, jazz e musica desertica sto volando verso l’isola di St. John’s ascoltando Semtex Revolution dei Coroner di Zurigo. Ma quanto ancora mi rende orgoglioso questa band? Saint-Pierre et Miquelon in basso e Pale Sister quassù. Mi ricordo che quando uscì quest’album si disse che i Coroner avevano ridotto le marce e diminuito i BPM delle loro violente cavalcate. Oggi a me questa musica suona veloce come la express subway di Manhattan.

Bene bene signori, é già tempo di resoconti mentre sto trascorrendo le ultime ore in terra d’America. Siamo arrivati al nostro gate abbastanza deserto in largo anticipo e già mi domandavo se sarei stati in grado di bermi una birra fresca prima di imbarcarmi. Cominciavo a disperare fino al momento in cui, girato un angolo, mi trovo di fronte alla Samuel Adams Brewhouse. Un miraggio!

Dunque adesso mentre sorseggio la classicissima Sam scura, sorrido pensando a quest’ultima intensa settimana trascorsa a spasso per le strade di NYC. E’ micidiale il senso di disinvoltura e distacco (in un certo senso) che questa città é capace di incollarmi addosso. Capita sempre, ad ogni visita: si superano le prime ore cercando di sopportare il frastuono a volte assordante da tutte le possibili sorgenti sonore. Polizia, pompieri, ambulanze, automobilisti comuni, tutti impegnati in una sinfonia di baccano caotico, avvolti dagli odori intensi di cibo, frittura, carne alla piastra, merda, sudore, improvvise folate di Chanel N° 5 al limite dello svenimento. Muri incrostati di strati e strati di carta, poster stracciati, autoadesivi, tombini che fumano di vapore. Rivoli di acqua lurida che corrono in strada contro i marciapiedi, trasportando ogni sorta di rifiuto, mozziconi di sigarette, bicchieri, tovaglioli, uccelli morti, pasta cinese, resti di pizza e ancora merda e piscio.

Ma poi la città, che é sempre bellissima e freddissima all’inizio  e quasi estiva questi ultimi giorni. Bowery, Houston e Canal st. i punti di riferimento ai quali tendevo di notte per ritornare al mio albergo tra Soho e Chinatown dopo aver assistito con gli amici al magnifico concerto di Felix Pastorius at The Zinc Bar in West 3rd st. mandando giù un mare di Leffe, diverse Tequile, un paio di Bourbon, poi in taxi prima da Pianos in Ludlow st. quindi un salto a Williamsburg con il barista irlandese che detesta il St. Patrick’s Day e infine uno stop poco fruttuoso in un bar vicino all’hotel e nanna alle 05:30.

Nei giorni successivi sperimentiamo lo sport americano ai massimi livelli assistendo ad un derby tra le due squadre di New York in National Hockey League, Rangers contro Islanders al Madison Square Garden, la casa dei Rangers che vincono la partita senza troppi problemi. Sono abbastanza deluso dal tifo praticamente inesistente, gli americani non sembrano avere tifo organizzato ed esultano e cantano solo in caso di goal e solo seguendo le indicazioni che appaiono sul tabellone elettronico. Se appaiono le mani che applaudono gli americani applaudono, se appare la scritta Hey loro cantano hey, se appare la scritta Goal loro cantano goal. E’ invece un loro grandissimo merito la tranquillità sugli spalti, con le tifoserie opposte assolutamente mescolate e rispettose. Sul ghiaccio invece, non un secondo di rilassamento nell’arco dei sessanta minuti. Un’intensità costante, continua dal primo all’ultimo minuto con le proverbiali risse che tanto scandalizzano i nostri telecronisti sportivi quando avvengono sulle nostre piste. Imbecilli, falsi moralisti che non hanno capito a quale spettacolo stanno assistendo.

Una mattina ci dirigiamo a sud dell’isola di Manhattan per poi risalirla lungo l’Hudson River. Giriamo per delle strade quasi deserte e sembra di vivere le scene di Vanilla Sky di Cameron Crowe, con Tom Cruise che si trova davandi una avenue completamente deserta da cima a fondo. Sono tutti scomparsi. Il fatto é che se non vedi nessuno a New York City può essere che il mondo sia veramente scomparso… Arrivati lungo la Hudson River Greenway appaiono i primi jogger che corrono nel vento gelido, in maglietta a maniche corte e pantaloncini. Lungo il fiume affiorano di tanto in tanto i piloni di sostegno di un vecchio pontile (pier) che oramai non c’é più. Dall’altra parte del fiume la skyline di grattacieli di Jersey City con dei grossi nuvoloni sopra che però filano veloci. Stiamo risalendo Manhattan con destinazione finale il molo 86 dove visiteremo la portaerei USS Intrepid, Ivan deve assolutamente vederla. E’ una specie di mania, di sogno proibito che si porta dietro da tanti anni e anche io sono assai curioso. Trascorriamo una fantastica mattinata gironzolando sui ponti della Intrepid e visitando infine anche il sottomarino Growler. Riusciamo solo ad immaginare il senso di claustrofobia che poteva impadronirsi dell’equipaggio quando questo aggeggio costruito nel 1958 girava sott’acqua per gli oceani. Una vera scatola di sardine, uno dei miei incubi cerificati! Mi tornano alla mente le immagini del capolavoro di Wolfgang Petersen, Das Boot e i brividi corrono lungo la schiena.

Tutto strettissimo, tutti ammucchiati, aria viziata, strani rumori, il sonar che scandisce la distanza dalla morte, sconcertante, cucina 1 metro quadrato con piastre e cibo per 88 persone, le cabine degli ufficiali  e del capitano grandi come un quarto di cuccetta di treno, poi uno stretto corridoio pieno di nicchie-letto alte non più di 50 cm per l’equipaggio, dei cessi stile aeroplano per dimensioni ma con l’aspetto del cesso più lurido di Scozia, per parafrasare Trainspotting, poi cunicoli, ferraglia, tubi, bottoni e lucine dappertutto, in uno strettume da suicidio, vecchia vernice verde marcio, cavi, manopole e manovelle, siluri e bombe, cornette di telefono, alle pareti, bulloni, saldature, guerra fredda, russi incazzatissimi, bombe di profondità, foto di fighe d’epoca giapponesi appese e caos strisciante che aspetta.

Usciamo dal sottomarino e finalmente é aria aperta, cielo, prospettiva, profondità di campo, azzurro, vita. Grande esperienza il Growler, quasi più interessante della portaerei.

Devo dire che ci siamo scelti un gran bel quartiere per pernottare qui a NY. Il nostro Holiday Inn si trova proprio tra Little Italy e Chinatown, a due passi da Soho e a quattro passi dall’East Village. Io credo che quest’ultimo sia in verità il quartiere più interessante di Manhattan, il più lurido, con la più alta concentrazione di rifiuti umani (non tantissimi per essere sinceri, rispetto alle visite del passato), casino ovunque e sporco per strada come ho già detto prima, e tanta roba attaccata ai muri, bellissima, un caos di autocollanti, poster e scritte che compongono dei veri e propri capolavori anche inconsapevoli a volte, con poster stracciati che si confondono con ciò che era stato incollato in precedenza, dando vita a delle vere esperienze artistiche che bisogna solo saper cogliere; a volte si nascondono in piccolissimi ritagli, a volte sono talmente caotiche che devi fermarti un momento  a guardare, devi dare un po’ di tempo e tutto ti si compone davanti agli occhi, stupefacente, bellissimo e tremendamente estetico. Ivan mi ha insegnato a cogliere tutto ciò, anche se io sono comunque sempre il grande esteta del lurido. Ma lasciamo a Cesare ciò che é di Cesare.

Per tornare alle serate di musica, dico che in effetti dalle parti di West Third Street si può sempre portare a termine una serata grandiosa. La nostra é cominciata alle nove di sera, mangiando fette di pizza straunta in un botteghino all’angolo tra MacDougal e West 3rd, Ben’s Pizza (mi ricordo che il giorno prima mi sono precipitato in questo locale e con estrema urgenza ho detto al messicano che infornava le pizze I’ll get a slice if you get me a toilet. Ma che strano ricatto… Come dire la tua pizza vale il mio piscio, ma non era così!). Poi ci siamo spostati tra Sullivan e Thompson, allo Zinc Bar (Sullivan st., cazzo! e per chi conosce i Counting Crows adesso é giunto il momento di cantare: Take the way home that leads back to Sullivan Street). Una scaletta scende nell’interrato, un’atmosfera viola scuro ci accoglie, Felix Xavier Pastorius mi passa accanto e mi urta con una spalla. I’m sorry mi dice, ed esce a fumarsi una paglia. Entro con i miei amici che in verità non sanno, nè del figlio nè del padre, ma non fa nulla, questa sera si impara ad ascoltare. Non sapere é spesso la porta per il vero ascolto libero, spontaneo e sincero. Al bancone mi accorgo subito che non hanno buona birra alla spina e ordino dunque 3 Leffe in bottiglia perché in Belgio non hanno da imparare da nessuno. Io sono felicissimo, mi ricordo le serate di tanti anni fa a NYC e questa me le rievoca. E’ impareggiabile essere qui con amici, aspettando altri amici prima di assistere ad un magnifico concerto. Dopo alcuni minuti arriva Aaron. Sono anni che non lo vedo. Ci abbracciamo e cominciamo subito a raccontarcela. Non siamo più ventenni ma Aaron mi dice: ma che c’é nell’acqua di Certara che non sei nemmeno invecchiato negli ultimi vent’anni, e porti sempre la stessa maglietta?! Subito risate. Questo é il modo giusto. Arriva anche Jay e partono altre cinque Leffe accompagnate però da cinque shots di Tequila. Evvai! Ci raccontiamo un po’ di storie mentre Felix smanetta il suo basso.

Io sono sempre più contento di essere velocemente piombato in questa magnifica atmosfera jazzata-notturna-niuiorchese. Ilario e Ivan stanno apprezzando e questo mi rende felice. Alla fine del concerto saluto Aaron che torna a casa mentre Jay propone chiaramente una nuova destinazione. Le Leffe e Tequile (2 giri) cominciano a farsi sentire ma saltiamo tutti su un taxi giallo-notte e ci dirigiamo verso l’East Village, tra Stanton e Ludlow St., da Pianos, la strada é costantemente pattugliata dalla polizia che controlla che non ci siano casini. Mi viene chiesta l’ID entrando nel locale, poi un timbro sulla mano, una stella rossa e sono al piano di sopra, dove gente piuttosto sbarellata si cimenta in improbabili Karaoke. Ivan chiede al capo se ci sono canzoni in italiano. Lui sarebbe pronto a buttarsi ma non c’è niente da cantare. Giù nei cessi gira cocaina ma noi siamo tutti bravi ragazzi. Mamma mia quanto siamo bravi!

Intanto mi rendo conto che sono le nove e mezza e non ho mangiato un cazzo stasera ma sono presissimo a scrivere mentre sul piatto del giradischi girano gli ultimi acquisti niuiorchesi, Wes Montgomery, Ahmad Jamal, Cannonball Adderley e Chet Baker. La rinascita del vinile. A NY tra le altre cose é successo qualcosa di straordinario, per certi versi. Non esistono più i megastore di musica. Hanno tutti chiuso e fatto bancarotta. Incredibile! Tower Records, Virgin Megastore, HMV, tutti chiusi. Non c’ é più un solo grande magazzino musicale aperto a NYC. Incredibile! Se vuoi comperare un CD devi andare in East Village o a Greenwich Village e trovarti un negozietto di quelli che battevo io a metà degli anni novanta in cerca di bootlegs di Zappa. Ma ora direi che ci sono più negozi di vinile che di CD. Fantastico! Il vinile é sopravvissuto al CD in America. iTunes ha distrutto il mercato dei CD qui in USA. Dunque ora se apprezzate un artista qualunque, pagate su iTunes per poco meno del prezzo di un CD, una lurida versione mp3 compressa dodici volte la versione originale! Evviva Apple! Evviva Steve Jobs!

Tornando alla serata, dopo Pianos, saltiamo su un altro taxi e attraversiamo l’East River per raggiungere Williamsburg, un tempo quartiere ebraico assai ortodosso e ora mecca hipster di NYC. Siamo tutti già cottissimi. Ilario ha strani impulsi che ricordano lo sbocco di vomito mentre corriamo lungo il Manhattan Bridge alle 03:00 del lurido mattino che ci piace assai, farneticando sul taxi. Per strada solo auto veloci e piccoli parchi illuminati di verde neon con cartacce svolazzanti per strada e probabili barboni all’addiaccio. Atteriamo in questo bar assolutamente assurdo nella mia memoria. Il barista irlandese tira fuori il suo iPhone, mi scatta una foto, poi fa partire un app che zombifica la mia immagine. Scuotendo il telefono cambiano le sembianze della creatura orrorifica con le mie lontanissime sembianze. Occhi completamente bianchi e naso collassato, con rivoli di sangue dalla bocca decorata da denti inbreeder stile Virginia profonda. Lui ride. Rido anche io mentre sto tracannando un Maker’s Mark Bourbon e in sottofondo gli AC/DC cantano ‘Cause I’m T and T, I’m Dynamite, T and T, and I’ll win the fight! e io sto proprio diventando obliquo. Niente da fare, nessuna tregua stanotte. Alle quattro si salta di nuovo su un taxi giallo e si ritorna a Manhattan, dalle parti di Kenmare St. per un’ ultima tappa in un locale dove riusciamo a farci un ultimo giro di Bourbon, ma la sala sotto é occupata da un private party e non c’é verso di convincere l’armadio che la presidia. Ritoniamo in albergo e ci addormentiamo alle 05:00. Una giornata intensa!

Qualche giono dopo scopriamo sempre da Pianos, una fantastica band canadese, The Beauties, band assai coesa, tight come dicono qua in USA. Prima del concerto ci concediamo, in un locale gestito da amici di Jay, uno stupefacente percorso piemontese a base di formaggi, un ottimo vino valtellinese e un fantastico dessert a base di panna cotta e confittura di fichi, con un bicchierino di gelato e caffé. Intanto sono diventato un fan istantaneo di questa bluesy band. Mentre torniamo in albergo mi concedo un orgasmo gastronomico: una crèpe alla nutella e zucchero a velo. Un vero e prorio rapporto sessuale! E’ una delle cose più goduriose preparate su questo pianeta! Ne mangiavo spesso a Bologna da Bombocrep.

Carne, birra e deserto

Comincio ad avere un prepotente bisogno di assaporare una gustosa bistecca al sangue con una bella caraffa di birra gelata da qualche parte nel sudovest americano. Sto immaginando di guidare per ore lungo le strade desolate nel deserto, mi vedo nell’ultimo pomeriggio a guidare nella solitudine della natura, sporco di sabbia rossa, con beef jerky a portata di mano, in attesa di trovare una tavola calda in cui mangiare una sontuosa t-bone steak e un motel in cui franare. L’auto tutta sporca, con le mappe stradali tutte stropicciate e strappate, sigarette per terra e tabacco sui sedili, bottiglie d’acqua vecchie di una settimana tutte gonfie, i bicchieri del caffé vuoti con il coperchio in plastica, un cesto di birra bollente nel baule, qualche strana micro-brewery dal nome evocatore. Tante foto scattate, sassi raccolti, impolverati e incrostati, legni secchi, contorti e colonne sonore meravigliose.

Adesso stappo una Sam Adams. Ne ho bisogno come di una medicina. Bottiglia bellissima, famigliare, fa parte delle mia memoria e della mia storia ormai.

Voglio vedere le lucertole e i serpenti, gli strani e inquietanti buchi nella terra secca del deserto, le gallerie sotterranee scavate dai cani della prateria, i piccoli cespugli secchissimi tutti gialli che se però ti avvicini rivelano del verde delicatissimo e sorprendente.

Sassi, colori, tracce di animali. Lattine schiacciate, vecchissime sul ciglio della strada, e cocci di vetro marroni e verdi, fondi di bottiglia. Rifiuti, ferri vecchi e arrugginitissimi, cinquecento anni di ruggine, assi di legno con chiodi arrugginiti piantati disordinatamente, stoffe vecchie sbiadite, strappate e plastiche spaccate, catapecchie di legno distrutte, legno vecchissimo, secchissimo e durissimo. Copertoni lacerati a brandelli sulla strada. Animali schiacciati incrostati sull’asfalto, consumati e prosciugati, saguari, chollas, aria caldissima, cielo azzurro e polvere che si alza mentre la calpesto con la testa che pulsa, la fronte imperlata di sudore, i capelli bagnati, il collo che brucia, tutto abbracciato dalla calura e dal silenzio.

Viaggio in Israele

Adesso dopo cena ho deciso di offrirmi un tris di whisky esclusivi. Ma si! Porcaputtana! E offriamoceli questi deliziosi whisky. Questa sera, dopo cena, me li merito tutti. Dopo i ravioli con ripieno di zucchine e formaggio mi offro nell’ordine un dito di Octomore, un dito di Port Ellen 30 Years Old e un dito di Glen Ord 30 Years Old. E’ giusto sottolineare queste cose.

Forse é meglio che scriva anche di quando io e Pat incontrammo il primo ministro israliano Rabin, a Tel Aviv, per caso, durante un pomeriggio trascorso a girovagare liberi come cani sciolti, sereni e ventenni. E’ meglio cercare di ricordare questo episodio che in effetti col tempo potrebbe sbiadirsi. Era il 1995 e reduce da un soggiorno in kibbutz un paio di anni prima decisi di tornatre in Israele con Pat per una vacanza che avremmo voluto vivere all’insegna della libetà. In quegli anni viaggiavo assai leggero e tranquillo. Avevo pochissime pretese e prendevo tutto ciò che la vita mi offriva. Tutto andava bene. Ero sempre contento di tutto. Ogni giornata vissuta era una giornata guadagnata. Qualsiasi cosa accadesse ero sempre soddisfatto. Ovunque la vita mi portasse ero soddisfatto. Non mi lamentavo di niente e tutto andava bene.  Qualsiasi cosa io mangiassi ero contento, qualsiasi sistemazione trovassi andava bene. Cercavo sempre di conoscere gente nuova e le giornate si concludevano sempre con me esausto che mi arrendevo alla fatica. Non c’era niente che io non avessi voglia di fare.

Durante quell’estate trascorsi alcune settimane in Israele con Pat che la visitava per la prima volta. Girovagammo per tutto il paese con i sacchi da montagna in spalla. Mi ricordo la notte in cui ci si addormentò sulle prime colline che dal Mar Rosso salgono fino al deserto del Sinai, sdraiati per terra nei nostri sacchi a pelo con le luci di Aqaba, della Giordania e dell’Arabia Saudita davanti, scolandoci una Tuborg bollente  in una notte che alle 23.00 ancora segnava 39 °C. Mi ricordo la visita alla fortezza di Masada e poi lo stesso pomeriggio una lunga salita, attraversando la Samaria a bordo di un autobus stracarico su fino a Gerusalemme. Tutto il viaggio in piedi, sia io che Pat puzzavamo come caproni dopo una giornata intera trascorsa a ispezionare prima le rovine di antiche sinagoghe, poi le saune di Re Erode, l’oasi di Ein Gedi per poi concludere la giornata esausti su questo autobus della Eged con i passeggeri che a ginocchiate cercavano di tenerci lontani. Mi ricordo le infinite contrattazioni per l’acquisto di una scacchiera egiziana nella città vecchia di Gerusalemme, a spasso per i vicoli più nascosti del suq.

Quando invece ci recammo a Haifa, una strana atmosfera teneva tutti sospesi, come galleggianti nell’aria. Ad ogni sosta dell’autobus udivamo uscire dalle case lo stesso messaggio da ogni finestra, la stessa voce grave e solenne. La televisione stava trasmettendo un messaggio alla nazione. Non capivo di cosa si stesse parlando ma precepivo la gravità nel tono e nell’attenzione silenziosa che coinvolgeva tutti durante questo strano viaggio.

La sera a Haifa ci informarono che un autobus era saltato in aria a Tel Aviv. Proprio quello che passava per Dizengoff Street, lo stesso autobus che pochi giorni prima avevamo preso io e Pat. Di Haifa ricordo poco, una lughissima passeggiata alla ricerca di cibo in una città buia senza gente in giro, solo qualche puttana al bordo della strada giù al porto e poi questo ristorante rumeno in cui mangiammo una bistecca con contorno di verdure prima di ritornare allo strano ostello ultra-cattolico con coprifuoco alle 23:00. C’erano bibbie e testi religiosi di ogni tipo in stanza posti in una  bacheca che stavamo fissando interrogativamente.

La mattina dopo fu impossibile fare il bagno a sud di Haifa; le acque erano infestate di meduse a perdita d’occhio e si poteva stare solo in spiaggia.

Si scese a sud verso Acco per visitare le rovine sotterranee dei templari. Ho l’immagine impressa nella memoria, quella sera, di un bimbo che arriva in sella ad un asino che procede spedito, a scatti, mentre lui lo bastona servendosi di un’assicella con un chiodo conficcato in fondo che sborda sull’altro lato di diversi centimetri. Non appena l’asino rallenta il bimbo sbatte l’assicella sulla coscia dell’asino conficcandogli il chiodo nella carne, a fondo. L’asino spalanca gli occhi,  scatta dal dolore con una paurosa piaga sanguinante aperta sul fianco dove il bimbo batte. Ci passa davanti, martirizzato e noi stiamo li imbambolati, inorriditi e un po’ smarriti dalla tremenda normalità di questa scena. Il giorno dopo mangiamo in un ristorante soleggiatissimo – questo mi ricordo – con una capra che passeggia tranquillamente in cucina. Ordiniamo pesce. Un scelta che avremmo pagato a carissimo prezzo dopo qualche giorno, con un cagozzo micidiale dovuto ad un’intossicazione alimentare abbastanza prevedibile.

Infine mi ricordo un pomeriggio abbastanza tranquillo a Tel Aviv, trascorso passeggiando per il lungomare. Nel tardo pomeriggio siamo seduti ad un bar in Rechov Ayarkon, ci stiamo scolando la seconda Goldstar da mezzo, gelata, accompagnata da olive e peperoncini verdi. Siamo già pienamente rotondi e con la testa leggera. Non mi ricordo di cosa si stesse parlando ma mi ricordo bene di quando feci notare a Pat che ci trovavamo proprio di fronte alla sede del partito laburista che si trovava proprio dall’altra parte della strada. Mi ricordo che dissi a Pat che quello sarebbe stato un luogo perfetto per commettere un attentato.

Mentre ci scoliamo la nostra meritata birra un tizio apparso quasi dal nulla comincia a girare per i tavolini del bar, ispezionando ogni cestino, controllando sotto ogni tavolino e sedia. Sta in silenzio e lavora veloce.

Ma checcazzo-sta-succedendo? Io e Pat ci guardiamo mentre questo tizio passa in rassegna ogni angolo del bar. Rovista come come fanno i barboni in mezzo ai rifiuti in cerca di qualche prelibatezza mezza masticata, il fondo di una latta ancora incrostato di resti di cibo.  Dopo alcuni secondi, qualche isolato più avanti, sbuca velocemente un’auto della polizia a sirene spiegate. Imbocca la nostra strada e arriva a piena velocità fino a qualche metro dopo la porta d’ingresso del partito laburista. Escono due poliziotti armati che si mettono a presidiare l’entrata. Dopo qualche istante si getta sulla stessa strada, dalla stessa parte una limousine nera seguita da un paio di auto della polizia. Corrono anch’esse in direzione dell’entrata del partito laburistra. Noi siamo li di fronte, mezzi ubriachi e assistiamo senza parole a questi momenti.

La limousine si ferma proprio di fronte a noi. Escono due guardie del corpo, una si ferma davanti allo sportello posteriore mentre l’altra fa il giro dell’auto. Si guardano intorno per un istante, aprono lo sportello, tirano fuori un uomo e di corsa lo lanciano all’interno della sede.

Ma… Ma quello era Rabin.  Pat! quello era Rabin.

E giù un’altra bella sorsata di birra.

L’immagine é ancora impressa nella mia memoria, abbastanza chiara. Ho un ricordo surreale di quell’incontro inaspettato. La città mi sembrava vuota in quel momento. Le strade deserte col sole basso del tardo pomeriggio.

Due mesi dopo Yitzhak Rabin fu assassinato da un ebreo fanatico durante un discorso a Tel Aviv.

Sole di mezzanotte

A Capo Nord tra il 14 maggio e il 31 luglio il sole non scende mai sotto la linea dell’orizzonte. Questa panoramica scattata alle 00:57 di giovedì 22 luglio rappresenta la mia personale esperienza di questo fenomeno. Une delle notti più memorabili della mia vita,  trascorsa in tenda davanti ad un panorama unico.

Oslo e strade

Vabbé, vediamo se ho ancora voglia di scrivere qualcosa. E’ incredibile il fatto che non mi sia ancora rotto i coglioni.

Oslo. Ho appena cominciato a camminarla e mi da un senzo di ampiezza, anzi é convessa. Ho fatto un salto all’Operaen, un bellissimo edificio in marmo bianco che ricorda la prua di una nave un po’ spaziale oppure un iceberg. E’ notevole come questo edificio ti faccia venir voglia di camminarci sopra. E’ pieno di gente che lo vuole semplicemente sperimentare, le sue rampe inclinate, le sue strane geometrie, i riflessi e le trasparenze. Anche i bambini ci corrono su e giù meravigliati. Bel concetto architettonico. Obiettivo pienamente raggiunto. Norvegia avanti nell’architettura ma direi indietrissimo nella viabilità.

Per il momento qui in Norvegia la velocità più alta concessa che io abbia visto arriva a 100 Km/h e solo qui alla periferia di Oslo, altrimenti da Nordkapp fino a qui in basso ho fatto tutto a 80 praticamente. Non esiste il concetto di autostrada. Quasi sempre due corsie di verso opposto spesso a 70 o 80 Km/h che qui chiamano autostrada. Ma si va lentissimi così. Il paese é poi infestato da radar disseminati ovunque, a dire il vero quasi sempre segnalati e poi cunette ovunque. Ma se metti il limite a 40 e poi ci fai una cunetta che a 40 ti distrugge sospensioni e semiasse sei pure un po’ bastardo. Ora ho cominciato a farci veramente attenzione.

Le strade sono decisamente più scorrevoli in Svezia dove seppur limitati spesso dalle due corsie in senso inverso in gran parte del paese il limite é a 110 e ci sono spessissimo corsie di sorpasso. Qui in Norvegia te le fanno spesso in discesa le corsie di sorpasso, dove non servono a un cazzo. Oppure stai andando al limite consentito di 60 Km/h, hai una roulotte davanti e non te la senti di sorpassarla infrangendo il codice della strada, magari c’é pure un radar. Comincia la salita e ci trovi eccezionalmente una corsia di sorpasso ma tu stai dietro perché sei già a 60 e proprio li davanti c’é il radar. Si arriva in cima alla salita, finisce la corsia di sorpasso, passi accanto al radar con la roulotte davanti a te inchiodata pure lei a 60 con il motore dell’auto che la traina che sta probabilmente per esplodere, ora non puoi più sorpassare, c’é linea doppia, e loro che fanno? Ti mettono infine il limite a 80! Non durante la salita quando avresti comodamente potuto sorpassare, solo dopo.  GENIUS! E ce ne sono tante così. Ho imparato a odiare camper e roulottes.

Poi si scoprono pure degli stati comportamentali perlomeno curiosi: stai guidando speditamente a 83 sugli 80 e da lontano vedi l’auto che ti precede che si fa sempre più vicina. 1 Km – 500 m – 100 m – 50 m, rallenti e ti metti educatamente dietro senza puntare (non é nel mio stile) e attendi l’occasione buona per sorpassare. Non dovrebbe essere difficile, stiamo andando da un paio di minuti a 75. Dopo un paio di curve finalmente un bel rettilineo libero. Abbandono i 75, metto la freccia, mi sposto sulla sinistra e comincio a operare il sorpasso. Ma lo stronzo davanti non si mette a gasare nel momento in cui io metto la freccia e esco?! Ma che cazzo vuoi? Ma vai pure a 75 che non ti dice niente nessuno. Ma come? Sei andato a 75 per una stronza vita intera e adesso che ti metto la freccia arriviamo appaiati fino a 90? Vabbé che con la tua merda d’auto ti avrei superato anche in 2 Cavalli ma questo comportamento mi lascia veramente senza parole. E succede spesso, forse a tutti, ma é curioso. Mi é capitato spesso qui nella lentissima e prudentissima Norvegia.

Ma poi in fin dei conti cosa sono tutti questi limiti? Anche qui a Oslo in autostrada? Solo a 100 e neanche sempre, di norma a 90. Guardate carissimi norvegesi che se superate i 100 Km/h non vi disintegrate mica, non entrate in un altra dimensione, non fate il salto nell’iperspazio come l’Enterprise del capitatno Kirk. Suvvia! 110 almeno! Dai, sveglia!

Simpaticamente, si intende.

Sorry Whale

Bene  bene, lampredotti sgrassati, oggi é tutto cominciato un po’ cupamente sotto un cielo abbastanza plumbeo fino alla fase conclusiva qui a Trondheim, seduto ad una steakhouse mentre gusto una birra col sole delle 21:30 tutto solitario in un cielo finalmente privo di nubi. Città carina con un centro abbastanza animato e qualche strada ancora ben conservata, con file di case tradizionali in bella mostra, soprattutto lungo il fiume dove poggiano ancora parzialmente sulle palafitte. In centro c’é inoltre una cattedrale abbastanza imponente.

Mi trovo davanti al molo e i gabbiani stanno strillando. Ho già lasciato da un paio di giorni il circolo polare artico ma il sole sta ancora alto anche quaggiù. Mi rendo conto che in ogni post non faccio che parlare del sole, ma in effetti é il fenomeno che più mi colpisce qui in Scandinavia. Mi sorprendo in una hytte o in una stanza d’albergo a scrivere su questo blog e senza che me ne accorga é già mezzanotte. Il mio orologio biologico non ci ha ancora fatto l’abitudine.

Intanto é opportuno aprire un altro capitolo:

La Scandinavia ha il suo Jerky, ma non si tratta di beef. A parte il reindeer jerky (di renna), unica versione della renna per ora appetibile – ho provato solo un affettato di renna dal gusto veramente un po’ troppo selvatico, molto più che la nostra selvaggina – mi ero preparato un paio di panini per il pranzo in viaggio nel pieno della wilderness norvegese ma ho fatto fatica a finirli o meglio li ho finiti (deve essere ancora inventato il cibo che non riesco a finire) ma non é stata un’esperienza piacevolissima. L’atro jerky, dicevo, é invece quello di stocafisso, veramente delizioso. Puoi masticarlo per ore, una vagonata di omega 3, e poi lo vendono a tocchettoni di merluzzo più o meno interi di quelli che alle Lofoten pendono dagli essicatoi, pelle di pesce inclusa. Le teste secche invece vanno in Nigeria. Pare che li ne siano ghiotti, oppure ne fanno un uso a me sconosciuto. Del filetto non glie ne fotte, la testa invece figata cosmica, mai mangiato niente di così prelibato! Filetto –> merda   Testa –> figata.

Sto dando dei tip clamorosi, ma a queste cameriere come si fa a resistere? Ti guardano con sti occhioni boreali…

Mamma mia quanti traghetti… Ieri ne ho presi quattro, oggi già uno e sono partito da 10 minuti. Questo paese ha acqua ovunque. Adesso sono sul secondo traghetto della giornata e tra le altre cose fanno dalle 70 alle 100 corone (10 – 15 CHF) ogni volta. Sono diretto a Bergen.

Piccolo pensiero un po’ imbecille:

qui scrivono “kvalitet”, pronuncia svizzero-tedesca scritta in italiano.

Le vecchie case di legno di Bergen sono veramente spettacolari e la natura qui attorno altrettanto, ma allora mi chiedo, perché con questo spettacolo davanti agli occhi  sono tutti dediti al Black Metal in Norvegia? Curioso questo fatto. Probabilmente i sei mesi senza luce in inverno hanno la loro parte di responsabilità.

Oggi ho camminato tanto per esplorare quella che é conosciuta come la città più piovosa d’Europa. Sono stato dunque graziato da un sole abbastanza generoso  e mi sono pure preso il tempo per fare qualche panoramica in città ma adesso mi sono rotto i coglioni. Ho riportato l’apparecchio in auto e lo lascio li fino a domani. Qui in città ci dovrebbero essere in concerto gli Iron Maiden e i Venom. I Venom! Ma dove potrebbero ancora suonare se non qui in Scandinavia?

Foo Fighters grande band, hanno fatto pezzi azzeccatissimi. Sto ascoltando Learning to Fly in un pub inglese.

Ora una constatazione dovuta. Il centro-sud di questo paese mi sembra un po’ troppo battuto per i miei gusti. Il nord é decisamente più impervio e dunque un po’ meno frequentato. Non saprei dire esattamente, ma qui a sud mi da più l’impressione di grande parco vacanze per famiglie. Comunque la quantità di Camper e Roulottes che circola in questo paese non penso abbia eguali al mondo, nemmeno negli Stati Uniti d’America ne ho visti così tanti.

Ok, questa sera mi concedo uno strappo alll’etica alimentare e mangio tra un istante un carpaccio di balena. Bel ristorante questo ma porco cazzo tira un’aria giù dal soffitto e già ho un torcicollo assai fastidioso. Già mi sono fatto spostare perché avevo un reattore d’aria fredda polare puntato dove? Ma sul collo, no! Adesso va un po’ meglio ma pochissimo meglio. Mi sono messo la felpa ma prevedo che domani durante il viaggio saranno dolori. Non potrò guardare alla mia sinistra. Ma perché cazzo hanno bisogno dell’aria condizionata a Bergen, tra i fiordi norvegesi? A Furnace Creek nel cuore della Death Valley ne hanno bisogno, ma li a metà luglio ci sono 54 °C.

Sorry whale, ma se questi sono il tuo gusto e la tua consistenza devo dire che in parte la tua caccia é giustificata. Veramente delizioso questo carpaccio di balena con una salsa bianca di yogurt credo, composta di fragole, ribes e un po’ di rucola che in fin dei conti sta bene dappertutto. Evviva la carne di balena, evviva le baleniere, evviva l’estinzione della razza. Scherzo ovviamente, ma qui servono la balena e la renna come da noi fanno con maiale e cervo. Il piatto principale é invece composto da un filetto di salmone e uno di Pesce Gatto atlantico, cozze, capesante e una aragostina in un delizioso guazzetto che ho asciugato con pane e burro alle erbe.
Insomma un’ottima cena. Prossimo obiettivo per il futuro una bella entrecôte di panda.

Sono ora nuovamente in marcia per visitare l’Hardangerfiorden e sono ancora in traghetto da Kvanndal a Utne.

In questo paese “aperto” si dice “open” ma si scrive Åpen. Quello che intendo dire é che hanno la “o” ma per scriverla usano la “A” con una piccola ° sopra. Bizzarro sto fatto. Alle Lofoten sono stato in un paesello dal nome molto sintetico: O. Chiaramente scritto Å. Oggi sono anche passato da Godo, scritto Gådå. E’ inoltre probabile che arancia si dica Appelsin. Non so come si dice mela però.

Merda, anche questa sera sarà difficile trovare una hytte. Ne ho trovata in effetti una, in una tenuta agricola in stile piuttosto Texas Chainsaw Massacre. Il fattore mi dice che la notte costa 270 corone. Io ne ho 200. Gli chiedo se posso pagare il resto in Euro. Ovviamente non accetta carte di credito. No! Non gli vanno bene gli euro e mi dice che giù in paese c’é un negozio e posso dunque andare a farmi dare un po’ di corone. Ok, gli dico, e vado al negozio. E’ una piccola Coop e spiego alla cassiera qual’é il mio problema, dico che le compero qualcosa poi mi faccio aggiungere 100 corone ulteriori. Ok, mi dice.
Passo la prima Visa. Carta non accettata. Ne hai altre? Mi chiede la cassiera. Proviamo con la Maestro. Carta non accettata.  Eh… Ma che cazzo é? Ma ragazzina, hai impostato bene la tua cassa? Mo provo con la seconda Visa ma é l’ultima carta che ho. Imposta bene, però!
Passo anche questa  e niente! Tre carte non accettate. Ma vaffanculo! Non é possibile. E’ la cassiera che sta sicuramente cannando qualche cosa ma mi dice solo sorry. Me ne vado sconsolato e salto sull’ennesimo traghetto e in culo alla Hytte Chainsaw Massacre, che forse é stato pure un bene. Magari sono stato salvato dal caso. Mo vediamo dove si va.

Ok, oggi sono finalmente riuscito a beccarmi una hytte in tempo. Adesso vado a prepararmi cena. Domani Oslo, non Åslå per questa volta. Mah, qualcuno dovrebbe spiegarmi questa cosa.