Pacifico mentale

Questa sera l’Oregon non mi ha riservato uno dei suoi leggendari tramonti. Cielo coperto, nebbia oceanica che sale fredda da ovest verso la terra. Vapore acqueo, acqua sospesa, verdura di mare trascinata a riva, spiaggia lunghissima e bruma, nessuna linea solo morbidi passaggi di tonalità di grigio. Fracasso d’acqua, onde che sbattono, aloni di luce flebile, fuochi lontani, abissi inimmaginabili, spuma. Confusione caotica, fantasmi nella nebbia, acqua che ritorna all’oceano. Il camino del Cohiba che pulsa e il bourbon che interpreta. Ho di nuovo vent’anni e contemplo in silenzio.

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And now, it’s time!

Bene, ora è forse il caso di fare una breve introduzione per meglio comprendere il post che segue. Mi ritengo una persona moderatamente sportiva, in passato ho praticato la pallacanestro e ho sempre giocato un po’ a calcio. Mi piace camminare e negli ultimi tre anni corro regolarmente la mia corsetta da quarantenne leggermente sovrappeso. Questo per quanto riguarda lo sport praticato. Per quanto attiene a quello seguito in tv sono sempre stato un gran fan di hockey su ghiaccio, sin da prima dell’indimenticabile primo titolo nazionale dell’ HC Lugano nel lontano 1986. Seguo volentieri le partite di calcio della nazionale e ho sempre seguito con piacere i mondiali e gli europei.
Ma c’è una passione che ho coltivato quasi clandestinamente a partire dal 2000 (e fanno quattordici anni oramai). Non ho mai pubblicizzato troppo questa passione. Gli amici fedeli sanno di che sto parlando ovviamente, ma anche loro ne sono venuti a conoscenza solo negli ultimi anni.

Sto parlando delle arti marziali miste, MMA (Mixed Martial Arts) per chi conosce il termine. Nel 2000, quando cominciavo la mia avventura professionale con le panoramiche a 360°, dopo quasi otto anni trascorsi a fare ogni possibile lavoro nell’ambito edile, dai plafoni ribassati alle pareti in cartongesso, dalla ventilazione alla protezione antifuoco, fui introdotto agli sport di combattimento dal contabile della azienda per la quale ancora lavoro. Ci scambiavamo link youtube di combattimenti assai cruenti dai quali non riuscivo a togliere lo sguardo. Se tutto lo sport che fino ad allora avevo seguito era in fondo un’ allegoria della guerra, dello scontro primordiale per la sopravvivenza, in questa nuova espressione sportiva avevo finalmente ritrovato l’essenza del gesto competitivo. Piú semplice e basilare di così non conosco altri sport. Due esseri umani uno contro l’altro senza compromessi, senza supporto alcuno, senza fronzoli. Chi resta in piedi vince. Nel 2000 esistevano alcune organizzazioni di riferimento nell’ambito delle arti marziali miste: UFC, Pride, K-1, Pancrase e altre.  In quegli anni internet offriva la possibilità di seguire questi incontri che ancora non interessavano i grandi network televisivi. Il download internet fu l’unica soluzione. Negli anni le MMA sono cresciute e hanno cominciato ad interessare anche le grandi catene televisive. UFC è diventata l’organizzazione di riferimento che ha fagocitato tutte le altre, Pride, Strikeforce, WEC.

Per farla breve, dunque, prima di partire per questo mio ultimo viaggio americano ho pensato che avrei finalmente potuto cogliere la palla al balzo e seguire dal vivo uno di questi eventi che si tengono un paio di volte al mese in diverse città degli Stati Uniti, in Brasile, in Inghilterra, in Canada ma molto spesso a Las Vegas, la capitale mondiale degli sport di combattimento.

Eccomi dunque a passeggiare tra il New York-New York, l’Excalibur, il Luxor in attesa che cominci lo UFC 175 Weidman vs. Machida al Mandalay Bay Event Center. L’eccitazione é tanta. Questo weekend si svolge anche la UFC Fan Expo con conferenze, seminari di ogni genere e MMA ovunque. Prendo qualche scatto durante lo show televisivo di Fox Sports con una notevole carrellata di star dello UFC presente e passato.

Miesha Tate, che con Ronda Rousey é una delle atlete di punta della divisione femminile.

Dan Severn, veterano dello UFC, di lui mi ricordo un epico incontro con il brasiliano Royce Gracie, grande la metà di Severn che dopo aver subito per quasi mezz’ora il wrestling energico di Dan, lo sottomise con uno strangolamento a triangolo in dieci secondi.

Rashad Evans, Dominick Cruz, Daniel Cormier e Brian Stenn

Chuck Liddell e Matt Hughes.

Primo salto spazio-temporale

Mi sto gustando una Fat Tire gelata eccezionale, qui sulla veranda della mia cabin al Desert Rose Inn di Bluff. Sono le 22:00 e l’aria è ancora calda. Sono veramente contento, una gran figata questa serata ma tutta la giornata ha riservato  emozioni forti. Il fatto che sia sera tarda e io mi trovo a Bluff significa che ho trascorso il pomeriggio nella Monument Valley. Sempre solo una grande esperienza. Adesso ci sono le stelle in cielo e se mi garba più tardi scatto una bella panoramica notturna.

Tra l’altro viaggiado da Indio verso la Valle della Morte, attraversando il deserto del Mojave ascoltavo questa radio:

[audio:http://www.texos.ch/blog/wp-content/uploads/Carne-sugosa.mp3|titles=Carne jugosa]

Secondo salto spazio-temporale

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Sono le 20:30 di giovedì e ho appena terminato una lunghissima giornata di transizione, infatti per l’ultima parte del mio soggiorno USA mi voglio concentrare sulla costa pacifica prendendola dall’alto, in Oregon possibilmente. Sono dunque partito questa mattina da Moab, UT in direzione della highway 70 per andare ad ovest. Mi sono tolto nuovamente lo sfizio di percorrere una porzione della highway 50, the lonliest highway in America, da Ely fino a Austin non c’è veramente nulla, solo vallate enormi e overdose d’orizzonte. Ad Austin ho girato a destra e sono salito a nord fino a Battle Mountain (Non so ancora di che battaglia si tratti, piú tardi indago). È forse percorrendo la 50 che percepisco di piú l’immensità di questo paese.  Oggi, attraversando Delta, ho avuto delle visioni di eternità mentre osservavo alla mia sinistra una dozzina di mucche. Non saprei bene come descrivere la sensazione, ma in loro percepivo una serena rassegnazione millenaria, come se fossero consapevoli del loro destino ma anche dell’importante ruolo che rivestono per l’uomo. Boh, strana sensazione.

Intando wikipedia mi ha informato che il nome della cittadina in cui mi trovo trarrebbe le sue origini dagli scontri che coinvolsero i nativi americani con i primi “settlers” a metà del 1800. Una delle pricipali attività di Battl Mountaine é l’estrazione dell’oro a quanto pare.

Ennesimo salto spazio-temporale e non sono più in Nevada. Ho anche definitivamnte abbandonato il deserto.  Oggi ho attraversato le immense praterie a cavallo tra il Nevada e l’Oregon, non a cavallo come fecero i primi settlers agli inizi del 1800, a cavallo ma non a cavallo. Ho trovato da dormire a Eugene per questa notte e domani punterò verso la costa lungo la quale scenderò poi lentamente fino ad arrivare a San Francisco.

Ieri sera ho pernottato presso un motel di Battle Mountain assai conveniente. Bisognerebbe sempre un po’ diffidare. Tutto sembrava troppo in ordine e della fregatura mi sono accorto solo dopo alcune ore che stavo in camera. Dal bagno proveniva, da dietro la parete, un rumore di acqua che cola, come se qualcuno stesse facendo una doccia o un bagno nella stanza accanto ma dall’altra parte non c’era nessuno e io mi sono dovuto sorbire questo fastidioso rumore tutta la notte. Per fortuna giro oramai da qualche anno senza mai scordarmi un paio di tappi per le orecchie. Mi hanno salvato da una nottata insonne.

Vista Point a 51°C

Un cestello di Sierra è ora sempre con me, è il mio fedele compagno di viaggio come pure una simpaticissima bottiglietta da 375ml di Maker’s Mark Kentucky Straight Bourbon. Si arriva in motel la sera e il cestello finisce subito nel frigo. Poi esco a cercarmi una bella tavola calda messicana in cui mangiare una succulenta enchilada accompagnata da una freschissima Tecate con boccale di birra ghiacciato e chili on the edge.

tecate

Ieri ho eseguito abbastanza in scioltezza una lunga discesa seguendo la Cabrillo highway, questo è il nome che porta la 1 qua nel sud della California. Un festival ininterrotto di “vista points”. Verso sera ho cercato di evitare Los Angeles passandole accanto da nord per poi proseguire in direzione di Indio.

L’esercizio di oggi primo luglio consisteva nel raggiungere per sera Furnace Creek all’interno della Death Valley. Ho trascorso la mattinata a fare panoramiche nel Joshua Tree National Park.  Durante la tappa di avvicinamento alla Death Valley oggi ho registrato la temperatura massima di 118 °F = 47 °C. Ma nel tardo pomeriggio, dunque se domani avrò fortuna potrò cercare di battere il mio record personale di sopravvivenza nella calura estrema.

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Mercoledì 2 luglio.

Mi sveglio abbastanza presto nonostante abbia dormito eccellentemente. Inoltre ieri sera ho potuto gustare una cena favolosa qui a Förnes con un ottima ribeye steak tagliata e ricoperta da una prelibata salsa ai funghi con un ottimo puré di patate con fiori di cappero e qualche allegro asparago grigliato. Tutto accompagnato da una deliziosa Sam Adams Summer Ale a me sconosciuta ma  assai gradita. In questo posto si mangia veramente bene. Qui in questo angolo inospitale del pianeta terra c’é un resort che offre un discreto comfort, dell’ottima carne alla griglia e delle graditissime birre fresche alla spina. Probabilmente é la stessa situazione climatica di certi deserti libici, senza resort, senza carne alla griglia e senza dell’ottima birra alla spina. Ci pensavo un po’ anche ieri durante l’avvicinamento alla Death Valley. Mi dicevo che tutto sommato il paesaggio che mi passava davanti agli occhi avrebbe potuto essere l’Afganistan, senza Talebani però, per il resto uguale!

Ma torniamo a questa mattina:

Salto in auto tutto bello giulivo alle 08:00. Mi sono comperato allo store del ranch tre mele con le quali pranzerò oggi e mi porto in auto circa 3 galloni d’acqua, non si sa mai. Per la mattina decido di andare a dare un’occhiata ai crateri di Ubehebe  su nell’angolo a nord del parco, a pochi passi da Scotty’s Castle. Percorro i 91 km che da Furnace Creek mi portano allo Ubehebe Crater in poco più di un ora senza incontrare nessuno lungo la strada. Fermo l’auto ai piedi di questo giovane vulcano (non più di 2000 anni a quanto pare) e comincio a percorrere il crinale del cratere maggiore. Tira un vento micidiale e tra me e me mi dico che qualche anno fa, quando decisi di scattare alcune panoramiche in questi luoghi, fui eroico. Questa volta non me la sento e scatto solo still. Alla sinistra del cratere seguo con l’occhio la linea bianca della strada sterrata che da Ubehebe parte per raggiungere dopo 27 miglia  la Racetrack Playa, lo strano luogo dove nel mezzo di una vasta pianura, dei grossi sassi sembrano aver lasciato delle scie lungo il tragitto da essi percorso. Mai nessuno ha visto questi sassi muoversi ma le scie stanno li ad indicare uno spostamento inequivocabile. Mah…

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Al termine della mia visita al cratere decido di inerpicarmi lungo la prima tratta della pista che porta alla Racetrack Playa. Non ho intenzione di percorrerla tutta, non sarebbe saggio. Non sono sicuro che la mia auto abbia i “numeri” per affrontare questa pista e poi mi dico che magari dovrei avvisare qualcuno prima di percorrerla, giusto perché qualcuno sappia dove mi trovo nel caso succedesse qualcosa. Comincio a farne un pezzo, poi tornerò indietro e domani mattina ci riproverò per davvero: passerò prima alla Grapevine Ranger Station, farò vedere l’auto e chiederò se é tutto in regola per affrontare la tratta. Questo pomeriggio avrei inoltre intenzione di ripercorrere la tratta lungo il Titus Canyon, che già percorsi in altre occasioni. Mi dico che potrei utilizzarla come termine di paragone chiedendo ai rangers se per Racetrack Playa la difficoltà é simile.

Questi sono i pensieri che mi frullano per la testa mentre affronto le prime miglia di sterrato verso Racetrack Playa anche se una vocina comincia a dirmi che potrei tentare di raggiungere la destinazione anche oggi magari. Non sarebbe prudente, cazzo! E se succede qualcosa? E magari oggi non ci va nessuno e rimango la da solo, con tre mele e otto litri d’acqua?

IMG_0698Vabbé, arrivo fino la su in cima e poi torno indietro. Mentre formulo questa ipotesi si accende una nuova spia mai vista prima sul pannello di controllo della mia Jeep. Allarme! Dice Low Tire. Che cazzo é? Ci sarà stato un calo di pressione nelle gomme, boh… Rallento e mi fermo. Già andavo abbastanza lento. Esco dall’auto nella calura assurda che l’aria condizionata all’interno mi aveva fatto dimenticare e cerco di capire che cosa sta succedendo. Sono a quasi 100km da Furnace Creek e da alcune miglia ho imboccato lo sterrato che porta a Racetrack Playa. Qua dove sono non mi vedrà nessuno, per giorni magari.

Tra l’altro qua dove mi trovo non c’é campo e il telefono non serve ad un benemerito cazzo di niente.

Faccio il giro dell’auto, qua tra le pietre, per capire che cosa sta succedendo. Arrivo alla ruota posteriore destra e per un istante mi si ghiaccia un po’ il sangue, giusto un istante. Sta si-bi-lan-do a balla! Esce aria dal copertone-figlio-di-puttana di questa scheisse-Jeep. Porca puttana se sibila. Si sta sgonfiando la ruota della mia auto mentre sono qui da solo nel nulla desertico e il pannello di controllo figlio di troia mi dice che ci sono 51 °C all’ombra! Caaaaaaaaaaaaaaazzzzzzzzoooooooooo! Mi ricordo bene che dissi “SHIT”! In inglese. Strano sto fatto qua. Quasi un po’ cinematografico! Come se per un micro-istante si trattasse di finzione “oliverstoniana” alla U-Turn. Io sono Sean Penn, mi é saltato il motore e fra un po’ arriverò all’autorimessa sgangherata di Billy Bob Thornton. Nessuna Jennifer Lopez da queste parti però.

E allora Texo pensa in fretta! Ma molto in fretta, cazzo! Cosa fai adesso? Tu, turistello imbecille, che ti sei sparato due caffe e un tè a colazione a Furnace e adesso sei nel deserto con una gomma dell’auto a terra. Un po’ come se ti trovassi in mare, circondato dagli squali su un gommone che si sta sgonfiando.

Salto in auto e riesco a malapena a girarla, la pista quasi non me lo consente, ma io non posso andare ancora avanti sperando di trovare un posto in cui girare. Riesco a girare a malapena e comincio a correre a tutta birra alla disperata ricerca dell’asfalto, perlomeno. Se mentre salivo andavo a non più di 25 miglia orarie, adesso sto tornando indietro a quasi 50. Devo fare attenzione a non ribaltarmi, cazzo. Dov’é l’asfalto cazzo!!!

Dopo una decina di minuti ritrovo l’asfalto a Ubehebe Crater ma adesso devo volare. Non posso fermarmi qua con un vento a 100 Km/h e 50 °C per cambiare la ruota. Mi ritroverebbero tra qualche settimana mummificato, ancora attaccato alla ruota.

Mentre volo verso la Grapevine Ranger Station tendo l’orecchio per capire se la ruota tiene ancora o se comincio a sentire quel flap-flap-flap-flap di cautchu spiegazzato e molle che rotea nell’aria. Arrivo alla ranger station, la gomma é a terra e chiaramente non c’é nessuno.

Apro il vano della ruota di scorta con il sole che martella il cranio e dentro c’é quella ruotina un po’ focomelica che la noti sempre quando vedi qualche auto sfigata che la indossa a Lugano. A LUGANO, ripeto, in primavera, estate, autunno o inverno, tra i 27 e gli zero gradi, non nella Death Valley, ripeto, VALLE DELLA MORTE, ripeto ancora, DELLA MORTE, cioe “cessazione di quelle funzioni biologiche che definiscono gli organismi viventi” secondo Wikipedia.

Una decina di minuti buoni mi servono per capire come si usa il crick che alla fine riesco ad operare sotto la Jeep. Sto grondando come se avessi fatto un tuffo a testa in una piscina piena di sudore. Faccio schifo anche a me. L’asfalo scotta tantissimo, e devo fare delle pause ogni volta che mi ci appoggio sennò mi ustiono. Intanto non passa assolutamente nessuno. E mi trovo nuovamente in strada, non su di uno sterrato che magari non tutti affronterebbero, ma da qua passa la strada che porta a Tonopah.

Eccheccazzo é TONOPAH? Ma chi va a TONOPAH, e per fare cosa?

Dopo alcune tribolazioni riesco finalmente a sostituire la gomma e adesso devo capire che cosa devo fare. Non posso andarmene in giro per la Death con questo ruotino ridicolo e sperare pure di arrivare a Vegas venerdì. Devo chiamare la Alamo per notificarli dell’incidente e per chiedere cosa devo fare adesso. Ma poi non avevo mica fatto un’assicurazione che mi copriva pure i costi per qualsasi incidente nel quale avrei potuto incappare? Per fortuna alla Ranger Station di Grapevine c’é un telefono dal quale posso chiamare il 1-800 della Alamo. Long story short sto al telefono circa un’ora con un cordialissimo operator che infine mi propone la seguente opzione:

in 120 minuti arriverà da Pahrump un towing truck che mi porterà un minivan e prenderà in consegna il mio Mid-size-SUV. Non riescono né a trovare qualcuno che mi ripari la gomma né un SUV sostitutivo. Accetto.

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Alle tre del pomeriggio mi ritrovo infine con questo Dodge Caravan SXT e dimentico nella Jeep che il towing man si porta via un ottimo CD di Bluegrass che avevo assemblato per il Maggie prima della partenza. Dopodomani ripasserò da Pahrump per andare a Las Vegas e mi fermerò dunque da Aquarius Towing per vedere se hanno ancora la Jeep merda con il mio CD.IMG_0700

A380

Sono stanco come un “walking dead” della stupenda serie americana diretta dal grande Frank Darabond. Sto fissando un riflesso sul vetro, qua di fronte, da quasi 10 minuti e sto cadendo a pezzi ora alle 5 e mezza del mattino. Mi berrei già una birra ma non posso, darei troppo nell’occhio. E poi questa prima tratta durerà veramente poco e a Frankfurt avrò modo di soddisfare questa mia esigenza. L’ ultima volta che visitai Francoforte era il 2011, credo, e Francoforte non si chiamava Frankfurt ma Frankfort. Non in Germania bensì in Kentucky.

Ho scelto il giorno sbagliato per viaggiare in aereo. Il cielo sopra l’Europa è pietoso oggi, qui in Germania addirittura indecente. Fino a Francoforte ho avuto il piacere di stare seduto proprio dietro ad un malato terminale di catarro plateale. Un’ ora intera di colpi di tosse, pezzi di polmone e virus dell’ebola che che volavano per il vettore e io immerso in questo particolato biologico spruzzato ovunque, una nebbia alveolare, un umidume bronchiale, un aerosol infetto dal quale non posso scappare. Adesso sto attandendo al gate Z66 di entrare nel ventre enorme di un A380 della Lufthansa.

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Ora sono nella pancia di questo bestione a due piani e sto puntando dritto verso l’Islanda a circa a 890 km/h. Andiamo lentissimi, cazzo, così a stima. Probabilmente quello che questo aereo ha guadagnato in posti a sedere l’ha perso in performance. Devo però riconoscere che questo sigarone ha un volo morbidissimo. Siamo comunque tutti un po’ pigiati qua dentro. Sul volo in direzione di Francoforte ero stanchissimo e avrei potuto tranquillamente dormire mentre adesso non faccio che fissare le info di volo per verificare ogni 5 minuti la mia distanza dalla destinazione. Sono già stufo e manca ancora tantissimo. Ho bevuto un bicchiere di vino e non mi è servito a niente, mi ci vorrebbe una bottiglia. Bisognerebbe sempre volare con una buona bottiglia di merlot nel bagaglio a mano. Piccola considerazione sugli aeroporti: devo dire che i tedeschi sono grandi. Arrivando dal corridoio degli arrivi di Malpensa in ricostruzione (o demolizione), con il caos onnipresente che aleggia nell’aria, mi ha fatto veramente piacere arrivare nell’affollato ma efficientissimo aeroporto di Frankfurt. Tutti presi dal lavoro, indaffaratissimi, nessuno che cazzeggia in questo enorme hub aeroportuale. Quando si dice “efficienza tedesca”. Ma anche noi svizzeri siamo abbastanza simili.
Ora sto mangiando. Ho scelto “beef” e sono finalmente arrivato al terzo bicchiere di rosso. Ho preso il secondo bicchiere pasteggiando poi mi sono accorto che una hostess ripassava chiedendo se qualcuno desiderasse un refill. Ho immediatamente tracannato il mio bicchiere e me lo sono fatto riempire nuovamente. Così va bene, adesso si comincia a ragionare mentre questa bianca supposta spaziale scivola ben lubrificata accanto alle isole Shetlands. Sto scrivendo tutto con il solo ausiglio del mio telefono e giuro che se tutto quello che ho scritto va a puttane come successe due anni fa in Scozia, appena atterro a San Francisco lo butto nel cesso dell’ aeroporto e vado dritto a comprarmi un Samsung. Non fregarmi, cazzo!

Mancano 8080 km alla destinazione finale e sul monitor della mia poltroncina comincio ad intravvedere la calotta bianca del Vatnajökull, nel cuore dell’Islanda, enorme presenza glaciale d’Europa. Adesso comincio a rompermi un po’ i coglioni a forza di scrivere. Mo mi sparo in cuffia un po’di Mastodon.

Questo pomeriggio sono finalmente giunto in California. Ho noleggiato una Jeep bianca che forse diventerà un po’ meno fornace nel deserto (e anche un po’ meno bianca). Sono uscito dall’aeroporto e ho preso la prima tratta della 101 south, poi ho tagliato verso la 1, verso la costa all’altezza di Half Moon Bay, attraversando dei profumatissimi boschi di eucalipto ascoltando Gillian Welch.

Santa Cruz distava circa 50 miglia e ho fatto veramente fatica a restare sveglio.

Texo goes to Africa – ricordi di terzo grado

Voglio aprire questo nuovo interessante capitolo con una nota mai pubblicata che ho appena scoperto sulla mia Moleskine. Era più o meno un anno fa e mi recavo in Cina per la terza volta scrivendo:
Sto volando a Pechino, da un’ora circa. Ho svuotato la zampogna qualche minuto fa, eppure avevo bevuto solo una Peroni. Adesso mi sento veramente meglio. Air China é il mio vettore. E’ la prima volta con loro e so far so good. Sono comunque lontani gli anni dei ribaltamenti per raggiungere lo stordimento necessario per permettermi di volare serenamente. Nelle cuffie adesso ho quel fantastico album che i Filter pubblicarono nel 1999, credo, o giù di li. Mi ricordo che lo ascoltai per la prima volta, intensamente, in treno mentre da Chicago tornavo dai miei amici a New York City. 25 ore di viaggio. Quell’anno la mia vacanza americana si contraddistinse per una lunga serie di trasferte massacranti a bordo di autobus e treni. Ma quanto pompa ancora quest’album dei Filter? Dopo tutti questi anni? Tiene ancora alla grande. The Best Things é un gran pezzo. Take A Picture é puro piacere.

Sto anche ascoltando Mastodon mentre rilascio nell’aria piccole dosi di scoreggia sapientemente dosate per non attirare l’attenzione, una delicatissima operazione di diluizione gassosa equilibrata e quasi graziosa.

Sacchettini, plastichine, pacchettini, scatarramenti, starnuti improbabili, sgrufolamenti nasali, colpi di tosse plateali, rutti di uomo e di donna. Tutta una costellazione di rumori fastidiosissimi. Sto ripartendo per l’Europa e all’orizzonte vedo boschi di gas.

Fine della nota ritrovata

Texo Goes To Africa, dicevo all’inizio.

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E’ l’una e mezzo del mattino, 11887 metri d’altezza per essere precisi, sopra Agadir. Sono partito da Milano alle 18. A mezzanotte pascolavo lungo una desolata sala d’imbarco all’aeroporto Mohammed V di Casablanca. Fra qualche ora ci sarà uno scalo tecnico a Lomè in Togo e poi ripartirò in direzione di Accra in Ghana. Sto ascoltando If You Dare della mono-band Idaho, sorseggiando un discreto vino rosso marocchino, Toulal Reserve.

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Mercoledì sera, abbiamo già terminato il nostro lavoro fotografico presso la Menaye School of Hope, nella Regione Centrale del Ghana e siamo ritornati ad Accra. Adesso sto sorseggiando un goccio di Glenlivet versato nel tappo della mia bomboletta di schiuma da barba e domani dedicheremo tutta la giornata alla perlustrazione di questa città di cui non abbiamo ancora visto molto.

T or C, NM

Tornando con la mente a Truth or Consequences, NM e ai motivi che ci spinsero a intraprendere le nostre epiche attraversate devo convenire che siamo sempre stati magnifici. Ci bastava una qualche scena dall’alto contenuto epico, una frase mitica, un piano sequenza maestoso e noi eravamo istantaneamente catturati. Bene così, si partiva e si andava a verificare personalmente. Mitico! No? Percorrere il deserto tra Gallup e Cortez solo perché per un paio d’anni non abbiamo fatto altro che ripeterci i dialoghi di Natural Born Killers.

Déjà vu by Crosby, Stills, Nash & Young on Grooveshark

CSNYE’ o non é fantastico ed estremamente pertinente voler andare in California perché per anni abbiamo ascoltato i dischi di CSNY, Jefferson Aiplane e tutta la scena musicale di Frisco? Siamo stati a Superior, AZ, grazie a Oliver Stone, Sean Penn e Jennifer Lopez!

A Boise cantando What’s Your Name dei Lynyrd Skynyrd e ricordo anche che, quando con Pat e Pagus attraversammo la state line che separa Florida e Alabama, l’autoradio mandava Sweet Home a manetta!

What's Your Name by Lynyrd Skynyrd on Grooveshark

Nella Bluegrass Region in Kentucky io vado oltre che per il Bourbon anche per la musica. E’ tutta terra che trasuda bluegrass quella a cavallo dei monti Appalachi, dalla Pennsylvania giù fino in Georgia. Non ho bisogno di dirti cosa ascoltavo attraversando le campagne sotto il cielo del Missouri.

The Moon Song by Charlie Haden – Pat Metheny on Grooveshark

Potrei inoltre sottolineare che seguendo “a desert road from Vegas to nowhere” sono arrivato a Bagdad, CA, dove c’é una “coffee machine that needs some fixing, in a little cafe just around the bend”.

I'm calling you by javeeta steele on Grooveshark

In diverse formazioni abbiamo contemplato le strisce di terra colorata a Zabriskie Point e non solo perché si trova nel parco della Death Valley. In questo deserto abbiamo immaginato cibo e oggetti esplodere al rallentatore con “Careful With That Axe, Eugene”.

Salendo o scendendo lungo la costa del Pacifico, seguendo la 1, non ci siamo fermati per caso a Big Sur e quando vedo un magnifico Southern Pacific a due o tre motrici che traina una fila infinita di pianali carichi di containers e rimorchi penso sempre al “Fantasma di Mezzanotte”:

Quando gli dissi che volevo saltare sullo Zipper, il merci espresso, la sera dopo, lui commentò: “Ah, vuoi dire il Fantasma di Mezzanotte”.

“E’ così che chiami lo Zipper?”

“Tu mi sa che ci hai lavorato su quella linea.”

“Già, ero frenatore sulla SP.”

“Be’, noi vagabondi lo chiamiamo il Fantasma di Mezzanotte perché sali a LA e nessuno ti vede più fino alla mattina dopo a San Francisco, quell’affare fila velocissimo.”…

 (Jack Kerouac, I vagabondi del Dharma)

Letteratura, musica, cinema! Noi abbiamo assorbito tutto alla grande nella nostra vita. Girare l’America in questo modo non é solo andare in vacanza. Negli anni abbiamo veramente preso il meglio di ciò che l’America offriva e al momento opportuno abbiamo cominciato a rendere omaggio. Lo stiamo facendo ancora oggi. I nostri viaggi in USA sono un rispettoso ringraziamento…

Stetson, Säntis & Highland Cattle

In questo momento non ricordo bene dove e quando ma dopo aver ascoltato il radio-racconto sulla realizzazione del film Midnight Cowboy di John Schlesinger, con John Voight e Dustin Hoffman, mi torna in mente un’istantanea di me in California, da qualche parte su a nord, forse a Eureka, quando comperai il mio Stetson in lana di bufalo. Anche se non ricordo bene i dettagli di quella giornata ricordo che con Jana scendemmo dalle montagne del nord della California dove in mattinata avevo comperato delle favolose camice da boscaiolo e un paio di scarponi da lavoro in un negozio in liquidazione a Quincy, nel nord della Sierra. La sera prima eravamo a Reno, dopo aver attraversato le praterie lungo la strada più solitaria d’America, la Route 50. SaentisBei ricordi che oggi avrei dovuto accompagnare con un Bourbon, invece che con un malto, e svizzero per di più. Comunque questa ulteriore bottiglia eccellente dal cuore della Svizzera centrale mi fa veramente pensare tutto il bene possibile per il futuro della produzione nazionale. Säntis Malt Edition Alpstein Merlot Cask Finish fornisce un sapore solido e aromatico, secco quanto basta, con un ottimo malto in apertura. La decisione di cominciare a cimentarsi con le rifiniture rilancia le già buone quotazioni di questo whisky e apre un magnifico ventaglio di possibilità alla distilleria Locher di Appenzello. Le vecchie botti di birra già assegnavano in modo brillante una categoria a se  per questo whisky, le rifiniture lo riportano in una dimensione più famigliare e meno “esotica”, più accademica ma sicuramente più autorevole.

cime-ventose

Il vento impreversa sulle cime delle montagne qua attorno e l’ultimo sole del giorno illumina la neve da dietro mentre ascolto lo stupefacente tema da Midnight Cowboy di John Barry.

Beh, anche io sono stato un po’ cowboy settimana scorsa, portando da Treciò a Comano una ventina di mucche scozzesi.

Islanda 2013

Sono trascorse alcune settimane e il bilancio della mia esperienza islandese, già ottimo nel momento del mio ritorno, migliora ora con il passare del tempo. A parte l’esordio assai problematico i momenti migliori li ho trascordi lungo le piste sterrate delle highlands islandesi. Il primo giorno dopo il ricongiungimento con la mia valigia sono partito alla volta della suggestiva cascata di Gullfoss. L’ Islanda é piena di cascate ma hanno tutte un aspetto unico e totalmente differente dalle cascate che siamo abituati a vedere dalle nostre parti. Qui hanno tutte un aspetto preistorico, come se si fossero improvvisamente aperte le acque più a monte. Non sembrano percorsi millenari ma passaggi freschi e devastatori.

Ce ne sono ovunque e hanno tutte un nome, Gullfoss, Godafoss, Dettifoss e tante altre “foss” sparse per il paese. Acqua ovunque dunque, turbolenta, pericolosa. La sequenza che apre Prometheus di Ridley Scott é stata girata sul ciglio della cascata di Dettifoss e capisco esattamente il motivo di questa scelta per un film che parla dei creatori della terra e dell’umanità. Questo é dunque il pretesto per pubblicare il video di immagini che ho catturato in Islanda. Apro con l’acqua in effetti, a Gullfoss.

Subito dopo Gullfoss parte la pista F35 che attraversa tutta l’isola nella parte più stretta a nord ovest. Ho cominciato a percorrerla con il sole e dopo un paio d’ore é arrivata la nebbia e la pioggia che la rendevano ancora più tetra e inquietante. La pista non presenta difficoltà ma é abbastanza lunga e dopo un paio d’ore che la percorrevo, con l’arrivo della pioggia, non ho incrociato praticamente più nessuno.

Un po’ più impegnativa é stata la F910 che dal microscopico avanposto di Möðrudalur scende a sud fino alla spettacolare caldera vulcanica dell’Askja attraversando un deserto che non ha nulla da invidiare alla più arida Death Valley. Le temperature sono chiaramente differenti. Questo é un deserto freddo battuto da un vento potente che solleva nuvole di sabbia che ti accecano. Arido e inospitale, esattamente come piace a me. Il percorso presenta un paio di difficoltà: due fiumi da attraversare con le assicurazioni dell’auto a noleggio che non coprono i danni causati dall’acqua durante i guadi. Quasi 200 km di sterrato, tra andata e ritorno.

Hopelandia

Ooohhh! Finalmente!
Ricomincia una nuova avventura, un nuovo viaggio solitario e finalmente ho un valido motivo per rimettermi a scrivere. Per il momento può bastare che io dica che vado in Hopelandia e che chi ha di solito più dimestichezza con i miei banali giochetti di parole indovinerà sicuramente il vero nome della mia destinazione. Qualche conoscenza in ambito musicale può aiutare.
Questo preciso istante fa parte di uno di quei momenti che io di solito annovero tra i miei top 5: sono seduto all’Harry’s Bar dell’ aeroporto Malpensa di Milano e sto mandando giù una fresca e deliziosa Beck’s.

Dopo l’inverno che ha fatto negli scorsi giorni oggi é finalmente ritornata l’estate, ma qui nel sud dell’Europa, non nel paese in cui sono diretto. Sono dunque vestito come uno sherpa himalayano qui ai 30 gradi di Milano in previsione della botta di freddo che mi attende a destinazione. Indosso scarponi da montagna Salomon con interno in Goretex, jeans lunghi (io di solito da marzo a novembre porto solo pantaloncini corti e sandali), camicia svizzera da lanciatore di bandiere con edelweiss ricamata a strisce e giacca imbottita di origine scozzese. Un abbigliamento indecente oggi qui a Milano ma ride bene chi ride per ultimo.

Il volo fila via tutto liscissimo, a Copenhagen una brevissima attesa e sono nuovamente a bordo. In Danimarca comincia a fare buio  quando decolliamo ma più ci spingiamo in alto e a ovest e più la notte ricomincia ad essere chiara. Arrivo a Reykiavik, eggià, ero proprio diretto in Islanda, cinque minuti prima di mezzanotte. Il sole é appena tramontato e ancora colora le nuvole lontane. Prima di atterrare sorvoliamo il Mýrdalsjökull e l’Eyjafjallajökull (impossibile pronunciarli correttamente), i due ghiacciai minori della costa sud occidentale, due enormi macchie bianche disegnate su una terra che vista da quassù da l’impressione di essere ancora ferma al tempo della creazione (non in senso religioso).

Dopo l’atterraggio mi dirigo diligentemente al recupero bagagli, un esercizio che risveglia sempre in me vecchie inquietudini legate ad una brutta esperienza di 10 anni fa con Air France tra Milano, Parigi e San Francisco. Dopo quaranta minuti rimango solo io e una famiglia di islandesi a fissare come imbecilli il nastro trasportatore oramai quasi vuoto, giusto un paio di borse semi rottamate con scritte in cinese che avrò visto passare almeno trenta volte. Intanto nella mia testa si fanno sempre più reali le mie paure. Non possono perdermi la valigia, c’é dentro tutto il mio piccolo mondo preparato con puntiglio apposta per l’Islanda: tenda Ferrino Chaos 2, sacco letto Ferrino ultra leggero per temperature fino a -9°, softshell windstopper Montura, pantaloni Mammut Base Jump elastici ad asciugatura rapida, idrorepellenti, fornello da campeggio Primus Omnifuel, set di pentole da campeggio, dolcevita grigioverde direttamente dagli anni novanta, su dalle parti della caserma Motto Bartola ad Airolo e per finire ma non meno importante un tocco di carne secca dell’Azienda Agricola Luca Chiappa dell’Alpe Corte di Certara.

Ma che ci sto a fare in Islanda se non mi arrivano queste cose? Avevo predisposto tutto, già immaginavo i magnifici momenti trascorsi fuori dalla mia tenda mentre cucino qui in alto, a destra della Groenlandia.

Prendo un taxi all’una e mezza del mattino alla volta del mio “apartment” a Bolholt. La mail che ho stampato dei Bolholt Apartment mi informa che se arrivassi tardi nella notte posso digitare un codice che mi permetterà di entrare all’interno dell’edificio dove le mie chiavi mi dovrebbero attendere. Giunto davanti alla porta scorrevole del Bolhot, lungo una strada deserta che porta giù fino al centro di Reykjavik, in una strana notte fonda islandese luminosissima, comincio a digitare il mio codice su un pannellino che non da alcun segno di vita. Non emette nessun “bip”, non si accende niente, non si apre niente, tutto resta fermo e io capisco subito che questa notte cominciata male potrebbe finire anche peggio. E mo che faccio? Sono qua come un ebete, davanti a questa porta scorrevole che mi impedisce di entrare in quella che sembra un’entrata di servizio ma che è in realtà l’unica vera entrata principale, totalmente incustodita. Gli unici campanelli presenti sono quelli di un paio di compagnie assicurative che si trovano al primo e al secondo piano mentre per gli appartamenti c’é un campanello che alla pressione non produce assolutamente nessuna reazione. Anch’esso non emette suoni. Sembra privo di corrente elettrica. Dopo una decina di minuti decido di chiamare il numero di telefono che avevo indicato sulla mail di conferma. Risponde il signor Halldor che evidentemente stava dormendo profondamente e che impiega qualche secondo per connettere. Gli spiego la situazione e lui mi dice che non è in grado di sbloccare l’ingresso. Mi dice che di li a qualche minuto mi avrebbe inviato per SMS l’indirizzo di un altro appartamento che alle 2 del mattino mi metterò dunque a cercare, lungo le strade luminose e deserte di Reykjavik in Islanda. Riesco a scovare questo nuovo appartamento dopo una trentina di minuti trascorsi a maledire due gruppi distinti di idioti che dapprima mi hanno perso la valigia e adesso mi obbligano a fare la passeggiatina notturna per trovare forse un posto in cui dormire (che ho già pagato tra le tante cose)

L’esercizio risulta abbastanza difficile a quest’ora dopo una lunga giornata di viaggio, senza bagaglio, costretto ora a digitare un codice per entrare in un edificio dove devo digitare un secondo codice, diverso dal primo, per aprire una cassettina che contiene le chiavi del mio nuovo appartamento. Ma cos’é? Un gioco? Poi dentro ci sarà magari un’altra scatolettina con un’altra chiavettina? Finalmente entro in camera. Dalla finestra entra troppa luce, ma io sono stanco come una merda secca e non ci faccio troppo caso. Mi addormento subito.

Reykjavik

Oggi é il giorno dopo, questa mattina sono tornato all’aeroporto pieno di speranza ma con un anfratto di cervello già rassegnato.

Alle nove e mezza arrivava da Copenhagen il primo volo della mattina. Attendo 20 minuti davanti agli sportelli del servizio bagagli, suonando campanelli ogni 2 minuti prima che qualcuno si degni di venire a sentire cosa ho da dire. Finalmente vengo ascoltato e dopo un breve controllo incrociato con le scartoffie che già mi portavo appresso dalla sera prima mi comunicano che non é arrivato niente dalla Danimarca. Chiedo quando arriveranno i prossimi voli da Copenhagen. Alle 15:30 e alle 17:00. Mi dicono che hanno il mio numero di telefono e che mi chiameranno se ci saranno sviluppi. Ritorno a Reykjavik ancora più scornato. Suona tutto maledettamente troppo famigliare. Comincio a vagliare alcune possibilità per proseguire il mio viaggio. Come fece Pat nel 2003 ora dovrò fare io. Entro in un negozio di articoli da campeggio giusto per farmi un’idea di quanto potrebbe venire a costare ricomperarmi un po’ di attrezzatura di base come la tenda e un sacco a pelo. Leggo delle cifre che non capisco: 54.000 ISK, 27.000 ISK, ma quanto cazzo sono cinquantaquattromila corone islandesi. Non capisco più niente. Cerco di fare dei calcoli ma mi vengono fuori solo delle cifre assurde, tipo un sacco a pelo per 5000 franchi svizzeri, una tenda da 2500 franchi… non capisco niente. Mi é impossibile capire in questo momento. Sigur RósEsco e vado a comperare l’ultimo disco di Sigur Rós, poi vado a bere una birra per cercare di mettere tutto un po’ in prospettiva.

 

 

Niente da fare, la prospettiva si restringe e sono già le 16 e 50. Il secondo aereo da Copenhagen é arrivato in Islanda da più di un’ora, nessuno mi ha chiamato. Prospettiva ufficialmente di merda! Torno al mio appartamento per avvertire casa che qua in Islanda si mette tutto un po’ male. Sono le 17 e 15, sono fermo al semaforo prima di voltare a sinistra per imboccare il viale che porta al mio appartamento vuoto.

Mi arriva un SMS. Non faccio in tempo a leggere che squilla il telefono. Il semaforo diventa verde e io, che di solito non rispondo mentre sono alla guida, sono preso quasi da un raptus. Potrei anche avere davanti alla mia macchina un GI islandese in assetto da guerra che mi intima di posare il telefono sennò spara…

Rispondo. “Mr. Spiegler?” Yes? “We found your luggage”

Non posso ripetere la sequenza di trivialità che sono seguite.

Questa sera mi sono cucinato una costata con patate e ho celebrato con Lagavulin Distillers Edition Pedro Ximenez Cask-Wood.

costata

Con la mia valigia!

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Nitty Gritty Dirt Band

Oggi sento il bisogno di scrivere di whisky. Scotch whisky, ma anche di musica. I miei giri attraverso le terre di Scozia sono oramai passato remoto. Rimangono i ricordi, molte belle fotografie, tante immagini panoramiche da assemblare ma soprattutto alcune strepitose bottiglie di whisky da assaggiare. Qui in montagna comincia a fare freddo, di sera e di mattina. I boschi sono ingialliti e arrossati. Sto ascoltando un disco che per troppo tempo ho ignorato. Mi ricordo di averlo incontrato a più riprese nel corso degli anni, rovistando tra gli scaffali colmi di dischi nell’ East Village a NYC e durante gli interminabili pomeriggi “leggeri” trascorsi a fare su e giù per Haight Ashbury a San Francisco. Prima un paio di pinte di Ale, poi una fetta di pizza da Escape from New York e poi la meticolosa ricerca nei negozi di “records”. Allora ero sempre alla caccia di Zappa e delle Mothers of Invention, gli originali, prime stampe, belli pesanti, vecchi, printed in USA, poi, di tanto in tanto, mi scappava l’occhio nella lettera “L” come Lynyrd Skynyrd. Avevo già tutto ma dovevo giusto dargli un’occhiata, per rassicurarmi. Quando vedi un disco che possiedi, hai sempre quell’attimo di autocelebrazione durante il quale ti ripeti che anni prima hai fatto la cosa giusta portandoti a casa un disco essenziale. Li passavo tutti, Pronounced ‘lĕh-‘nérd ‘skin-‘nérd, Second Helping, Nuthing Fancy, Gimme Back My Bullets, Street Survivors. Poi, come spesso mi é successo, il mio sguardo cadeva, alla lettera “N”, su una copertina abbastanza bianca con scritte a mano e una foto ovale incorniciata al centro. Per qualche motivo ho sempre pensato, in un primo istante a Jethro Tull “Thick As A Brick”, anche  bianca con scritte nere. Ma non c’entra un cazzo! Ogni volta mi ripetevo: “Ah, già, Nitty Gritty Dirt Band”, quella band country… Bella la copertina, ma non mi interessa. Proseguivo poi nella mia ricerca dell’album perduto di Zappa o qualsiasi altra sollecitazione rock.

Poi birra, ale, slice, BART e ritorno dalle parti di Powell o Bush St. dove in genere alloggiavo quando stavo a Frisco, con le mie cene a base di mele, Winstons e birra. Allora facevo così. Mi bastava! Mistero…

Sono trascorsi oramai almeno 15/20 anni da quelle prime scorribande random e negli ultimi anni mi sono appassionato di musica americana tradizionale acustica. Bluegrass per l’appunto. Ci sono dentro, signori. Mai avrei pensato che questa musica avrebbe potuto occupare le mie giornate, monopolizzare i miei ascolti come accade oggi. Negli anni ho cominciato a conoscere e apprezzare Earl Scruggs, Doc Watson, Norman Blake, Bill Monroe. Ci sono arrivato per vie traverse, come ho sempre fatto con tutti i  miei ascolti. Mi sono fatto trascinare sempre più a fondo, come una sonda spaziale che viene catapultata da un’orbita all’altra, da un pianeta all’altro. Ci sono arrivato prendendo la curva molto larga, passando attraverso le espressioni più “alternative” del genere: Punch Brothers, Infamous Stringdusters, Cadillac Sky, Nickel Creek. Ma adesso sono arrivato a Flatt & Scruggs, The Stanley Brothers, Jesse McReynolds, Bill Monroe e Doc Watson. Sono alle origini del genere. Ascolto i padri fondatori della musica “bluegrass” e adoro quello che ascolto.

Oggi finalmente ascolto Will The Circle Be Unbroken della Nitty Gritty Dirt Band.

Questo é un disco fondamentale, signori. Se si fosse mai alla ricerca di un ponte tra il moderno e la tradizione, tra la generazione che ha ripreso la tradizione e quella che l’ha creata, questo é il disco giusto. Un esperimento riuscitissimo, una sorta di documentario musicale, un evento generazionale che vide i membri della Dirt Band chiamare a raccolta diverse leggende del bluegrass per realizzare un album che fu registrato in 6 giorni restituendo un magnifico esempio di collaborazione tra la generazione dei capelloni della West Coast e quella degli artisti di Nashville.

Sono felice di essere finalmente arrivato a questo album.

Non ho parlato molto di whisky. Sarà per la prossima volta.