Capozzi in NYC

Me lo ricordo benissimo il giro che abbiamo fatto a New York col Capozzi, siamo partiti dall’undicesima avenue, o giù di lì, veramente in fondo, quasi riversi nell’Hudson River, faceva freddo, soffiava un vento forte e il cielo era grigio. Stavamo non lontano da dove domenica a mezzogiorno ci eravamo fatti una sontuosa Porterhouse con ottimo vino, deliziose birre prima e blody Mary ancora prima. Si partiva su questo furgone grigio con guida dapprima piuttosto prudente da parte di Michele e vieppiù sempre più spavalda. Su in alto, di mattina, per cercare una tavola calda ad Harlem, Sylvia’s su Malcolm X Boulevard, luogo assai storico e vera cucina famigliare. Poi moschea con palazzo annesso costruito un po’ di fianco e un po’ sopra. Sosta alla Columbus University con gente sapiente che corre pensierosa e freddo. Ricordo una sosta presso una casa vecchissima in cima ad una collina.

In un qualche imprecisato momento ci siamo diretti più a nord. Il Bronx risveglia solo pensieri memorabili, confusi, trame di film, sequenze cinematografiche, dispacci d’agenzia, morti e guerre tra bande, Bob De Niro e tanta altra bella roba. Arthur Avenue con le sue botteghe italiane in un abbacinante caos di mozzarelle sospese, salsicce, birra Peroni e un ottimo caffe da Ignazio, in un club insospettabile, nascosto dietro un’anonima porta che si apre in una traversa buia di Arthur Av. Foto di italianità alle pareti, il gagliardetto del FC Corleone attira la mia attenzione. Poi siamo tutti leggerissimi mentre ci incamminiamo verso il furgone prima di decidere dove andare a mangiare. C’é anche un ricordo fumoso e un po’ blurrato che ci vede tutti da Katz’s Delicatessen a iungurgitare chilate di pastrami. Forse era la sera della festa di compleanno di Mark, dopo aver assaggiato all’incirca 25 birre differenti da Ginger Man.

Scaffale degli orrori presso Gustiamo con amica di Capozzi. Per cena mi ricordo un Diner con un nome mitologico, tipo Poseidon (Neptune Diner), ad Astoria, sotto un viadotto a pochi passi da pozze di acqua morta circondate da cespugli sofferenti senza foglie e sacchetti di plastica stesi tra i rami come bandiere. Doppio Cheesburger Deluxe con potatoes e cetriolo. Poi forse rientro in albergo a Chelsea. La mattina dopo un caffé al volo a Brooklyn poi attraversiamo Williamsburg con le sue scuole talmudiche e ortodossia ebraica ovunque. Graffiti anti-Hillary Clinton sul marciapiedi, si passa accanto alla birreria Brooklyn Brewery ma non ci si ferma. Ci si dirige verso Brighton Beach, sulla penisola di Coney Island. Piscio in un bagno pubblico amplissimo sulla boardwalk. Vento sempre più insopportabile mentre camminiamo lungo la spiaggia totalmente deserta. L’acqua dell’atlantico è gelida quassù a New York.

Entriamo da Volna, un ristorante russo che si affaccia sulla boardwalk. A guardarlo dalla spiaggia è uguale identico ad un quadro di Hopper questo pomeriggio luminoso e deserto a Coney Island, con il vento che solleva la sabbia, i gabbiani che fanno casino e null’altro in giro. Pomodori, cetrioli e cavolo in salamoia, aringhe affumicate, beef stroganov, borsh georgiano, birra e vodka. La testa si fa pesante. Al rientro, prima di attraverssare Brighton Beach, un’ambulanza ebraica ci blocca la strada. Passiamo accanto al Verrazano Bridge, pian piano il sole scende e la sera si fa colorata. Cerco di fotografare maestose strutture metalliche dal furgone in piena corsa mentre ci dirigiamo verso Roosvelt Island, nel bel mezzo dell’East River. Qui un altro piscio tattico mentre scatto foto al Queensboro Bridge da sotto. La sera prima nel Village trascorriamo dei momenti epici dapprima da Mezzrow, scolandoci bourbon e asoltando un discreto trio chitarra, double bass e sax, poi usciamo, attraversiamo la strada e ci infiliamo di sotto da Smalls. In questa cantina tutta affollata David Gibson da fiato al suo trombone, Pat ha appena raccattato in strada un chiodo Cartier d’oro massiccio. Le panche in questo jazz club sono tutte occupate e Gibson é veramente cool mentre suona Inner Agent

 

I write whatever the f@%k I want

Milano, sul Naviglio Grande. 19.40, sole basso che illumina le facciate del lato sud. Sono seduto al Brellin e sto bevendo un delizioso Hugo, prosecco, succo di sambuco, lime, mela e menta. Ci farei il bagno in questo spritz, mi getterei nel Naviglio facendomi trasportare da questa corrente regolare, oleosa che va nel Ticino e poi nel Po. Stasera ascolterò per la 3 o 4 volta Dweezil Zappa e la grande musica di quel genio di suo padre, nel 50esimo anniversario dell’ uscita di Freak Out, il primo geniale e rivoluzionario album di Zappa Frank mentre qui mandano dell’ ottimo jazz d’ annata.

Tempo per riflettere sulla vita, un po’ superficialmente, mentre sgranocchio una cipolla sottaceto. Amici che vengono e amici che vanno, durante gli anta succede questo. Intanto io ascolto ininterrottamente da quasi 30 anni la musica del genio di Baltimore. Questa cosa resta, lui resterà, ma anche la mia passione c’è e resta.
Sulla mia maglietta  ci sono due macchie di grasso di salsiccia Landjäger che ho tenuto chiusa in auto questo pomeriggio mentre il sole picchiava. Bad choice! Ha cominciato a trasudare grasso che poi mi è colato addosso al primo morso.

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Post interrotto

L’anno passato  stavo scrivendo questo post interrotto che mi portava indietro con i pensieri all’ultimo viaggio in America del nord. Oggi lo riprendo perché in USA ancora non ci sono ritornato ma ho finalmente avuto l’occasione giusta per ripensarci. Giacevano infatti inermi in un hard disk dimenticato le clip filmate durante quell’ultima scorribanda.

inizio della bozza

Esattamente un anno fa partivo per uno dei miei classici giri nordamericani seguendo dei percorsi già noti che però mi procurano sempre forti emozioni. Quando sono alla guida di un automobile sulle stade americane sono sempre in uno stato di serenità unica. Esistono solo quelle due o tre settimane, non c’è più passato o futuro, esiste solo un incredibile presente fatto di lunghissime e spettacolari giornate di viaggio, all’inseguimento del sole, alla ricerca della foto perfetta. Le cene sono sempre un momento speciale. La scelta della tavola calda è essenziale.

fine della bozza

Carne rossa rossa

È veramente trascorso troppo tempo dalla mia ultima pubblicazione. Questa latitanza é sicuramente indicativa del mio stato d’animo negli ultimi mesi, trascorsi ciondolando tra incertezze e nuove opportunità. Mi é chiaro che per scrivere ho bisogno di una certa serenità oppure devono accadere eventi straordinari che spezzino la lastra di ghiaccio che attualmente imprigiona la mia voglia di scrivere. Uno di questi eventi é sicuramente stato l’acquisto del deluxe box di RED RED MEAT, la band di Tim Rutili, prima che questo formasse la rock band sperimentale dei Califone.

Questo meraviglioso box set é probabilmente il più incredibile oggetto musicale che io possiedo oggi. Un’edizione limitata in 114 copie tutte assemblate a mano dalla Jealous Butcher Records che così spiega la realizzazione di questo 8LP Book set: “This is the reason we make records“.

Io aggiungo che questo é uno dei motivi per i quali adoro il vinile.

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Naret e silenzio

Ok, mi  sono finalmente deciso, adesso posto!

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Era ora che tornassi a scrivere ma avevo bisogno dello stimolo giusto. Dopo aver trascorso la tarda mattina in Val Sabbia e aver pranzato alle pendici del Madone, in questo momento sono seduto su un masso di granito sul Sasso Nero, a 2406 metri per essere precisi. Alla mia sinistra si apre tutto soleggiato il lago del Naret, davanti a me, giù in basso, l’ultimo colpo di coda della Valle di Peccia con sopra la magnifica cresta della Corona della Bolla. Alla mia destra uno dei sentieri che portano alla capanna del Cristallina – spero di andarci presto – quasi in bilico su uno sperone roccioso che apre sulla Val Torta.

Capanna-Cristallina

Forse questo è il primo momento di vero silenzio sperimentato negli ultimi anni. Sento solo il mio cervello che lavora – fa rumore in effetti –  come i tralicci della corrente elettrica che qui attraversano tutta la valle, salgono su dalla Vallemaggia e si ributtano in Val Bedretto. Le marmotte fischiano mentre le nuvole passano veloci. Poco fa ho udito in lontananza un gran fragore di massi che precipitavano lontano in basso alla mia sinistra. Un rumore simile lo udii in Islanda qualche anno fa quando ai margini del Vatnajökull sentivo pezzi di ghiacciaio che si frantumavano. Un rumore sordo e pesante che mi mette i sensi in stato di allerta. Sono le 16 e adesso è meglio che cominci a scendere.

Stambecco

Nipponica

Ricordi stropicciati di una settimana trascorsa in Giappone.

Parte I

Il viaggio in aereo dall’Italia al Giappone é veramente un po’ troppo lungo per i miei gusti ma é reso più sopportabile dalla Economy Premium di Alitalia che mi offre almeno 20 centimetri in più rispetto all’Economy, di vitale importanza per le mie ginocchia. Inoltre gli schienali non sono reclinabili e così si evitano monumentali rotture di scatole. Grazie ai centimetri in più é tutto il sedile che slitta verso il basso come su uno scivolo e ti permette di stare leggermente più orizzontale senza rompere le palle a nessuno.

Alla stazione ferroviaria dell’aeroporto Narita riscuotiamo il JR Pass che tornerà utilissimo sull’arco della settimana.

Portiamo i nostri bagagli all’albergo nel quartiere Chūō, a pochi passi dalle fermate del metro Bakurocho e Kodenmacho. Le stanze sono veramente microscopiche – 10 m² incluso un modulo prefabbricato contenente gabinetto e doccia – ma siamo felici di prenderne possesso. Ricordo una visita al quartiere di Asakusa con una tappa obbligatoria al tempio Sensō-ji, attraversando il Kaminarimon, la porta d’ingresso al viale che conduce al tempio. DSC_0435Noto subito le svastiche dorate che adornano le arcate che sorreggono il tetto. Camminiamo attraverso una folta folla impastata di turisti e devoti. Il cielo é grigio-coperto, le botteghe lungo il viale vendono dolci tradizionali, ombrelli di bambu e carta, souvenir assortiti e schede telefoniche. Giunge anche il magico momento del primo pasto tokyoide. Ci infiliamo dentro al ristorante Sansada, proprio di fianco al Kaminarimon e stiamo abbastanza leggeri con un piatto misto ottimo ma abbastanza caro. Qui vige l’usanza di mettersi a tavola scalzi e il tavolo é veramente bassissimo per noi che sembriamo i LA Lakers. Per stare seduto a tavola assumo una posizione assolutamente innaturale che nel giro di 15 minuti mi procura un bel assortimento di crampi bilaterali.

Usciti dal ristorante godiamo di un ottima veduta aerea dalla cima di un palazzo.

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20150406_21221120150404_192050Ho poi vaghi ricordi di una passeggiata un po’ onirica – forse irrompeva la stanchezza da jet lag – lungo una via abbastanza deserta con negozi di articoli da cucina su entrambi i lati. Era forse l’ora della chiusura, cominciavo ad avere allucinazioni da spossatezza, ma il ricordo che ho é quello di un passaggio esteticamente raffinato, anche tra gli scaffali stracolmi di vasellame, caraffette da sake, servizi da tè e spettacolari vetrine di sampuru (da sample), cioé i piatti in plastica o ceramica che riproducono in modo estremamente realistico le pietanze servite nei ristoranti.

Poi in metro raggiungiamo Ueno e cominciamo a percorrere delle affollatissime strade popolari che seguono la linea ferroviaria sopraelevata. Gli spazi al di sotto dei binari sono tutti occupati da negozi e ristoranti. Questo é il clima che mi piace. Lentamente cominciamo a percepire un’atmosfera vagamente bladerunneriana. Ci sediamo all’esterno di un primo locale e ordiniamo subito 4 birre e un po’ di spiedini alla griglia con un po’ di contorno. Al tavolo di fianco al nostro esigono un brindisi con noi. Ci si saluta e si brinda senza che si sia in grado di comprendere una sola parola delle nostre conversazioni incrociate. Loro solo in giapponese noi solo in italiano con un po’ di inglese.  Tutto perfetto direi. Fa abbastanza fresco questa sera e siamo tutti coperti e incappucciati. Al termine di questo spuntino frugale andiamo a cercarci un altro posto.

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Pat intercetta un locale dall’aspetto accogliente e ci precipitiamo dentro. Traditional IZAKAYA house Bi Bi Bi di Akira Tanaka. Questo locale celebra il nostro incontro ufficiale con il sake. L’oste generosissimo, ce lo serve facendolo trabboccare in queste fantastiche scatolette di legno che fungono da sottobicchiere. Accompagnamo questa epica bevuta con pinne secche di pesce e risate. Prima di uscire l’oste ci omaggia con uno spuntino che ci servirà per trovare la strada del ritorno.

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Partiamo alla ricerca di un posto in cui cenare. Qui sotto la sopraelevata si sta maledettamente bene. C’é tutto un mondo laborioso di piccoli businness, un fiume di gente che va e viene, caos urbano, cibo, vetrine fluorescenti, scatole ammucchiate, insegne luminose, il treno che passa, gran baccano, gente che urla, che si urta, folate di cibo cotto, fritto, che ancora sfrigola sui fornelli, fumo, noi avanziamo senza meta, alla ricerca di stimoli. Scoviamo infine questo locale in cui si servono dei ramen abbasanza leggendari e ci mettiamo in coda. Si ordina tutto ad una biglietteria automatica che sembra una slot machine. Attendiamo una decina di minuti prima di poterci sedere – é difficile ottenere una combinazione di 4 posti liberi al bancone di questo stretto locale – ma infine arriva anche il nostro turno. E’ animalesca la voracità con la quale affronto questa scodella di ramen guarniti con maiale affettato e un uovo marrone con il tuorlo quasi trasparente che avrà certamente subito un sapiente metodo di cottura  a me totalmente sconosciuto. Impariamo presto che per mangiare dei ramen bollenti bisogna produrre un suono di risucchio direttamente proporzionale alla temperatura della pasta che si ingerisce. Dopo aver cenato o forse anche prima mi ricordo di essere entrato qualche minuto all’interno di una sala in cui si gioca a Pachinko, il flipper nipponico senza destrezza necessaria. Tutti stanno ipnotizzati davanti alla propria macchina mentre le palline scendono a cascata in un inferno caleidoscopico di luci al neon e rumore industriale.

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La mattina seguente ci riserva la pioggia. E pensare che eravamo venuti in Giappone per ammirare i ciliegi in fiore. E allora andiamo a vederli ugualmente, al parco. Questa pioggia e le temperature non proprio primaverili devono aver rovinato le vacanze a molti giapponesi che a quanto pare si spostano a milioni per assistere al fenomeno della fioritura nei parchi delle più importanti città del Giappone. In effetti li vediamo accamparsi sotto agli alberi, a fare il picnic sotto la pioggia, togliendosi le scarpe, coprendo i piatti con la plastica. Una tristezza…

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Visitiamo il distretto di Akihabara, la città elettrica. Mandrake, uno store multipiano, soddisfa appieno la nostra curiosità in merito ai manga. In altri negozi rimaniamo abbastanza di stucco. Ci sono delle action figures che non ho mai visto nei negozi di giocattoli dalle nostre parti. A mezzogiorno ci infiliamo in un ristorante stretto ma su due piani. Da una ventola sul soffitto scendono ventate di aria caldissima. Scegliamo ancora ramen. Di fuori piove e fa freddo e abbiamo dunque bisogno di qualcosa di caldo. Completiamo la reidratazione con una bella birra.

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Nel pomeriggio ci spostiamo a Shibuya giusto per dare un’occhiata ad uno degli incroci più affollati della terra. Le immagini della gente che lo attraversa contemporaneamente, dai quattro lati della strada e in diagonale, sono famose in tutto il mondo. Ci infiliamo poi in un grande magazzino a pochi passi dall’incrocio. Shibuya 109, the Tokyo’s fashion hotspot for young Japanese women. Qui dentro mi sento veramente fuori luogo. Usciamo poco dopo e ci dirigiamo a Roppongi. Di questa prima parte di pomeriggio ricordo una birra bevuta in una laterale di quella che sembra la Fifth Ave. in versione giapponese. In questa occasione torna utilissimo il mio kit ellettrogeno per ridare succo ai cellulari a secco di energia. Poi entriamo nel suggestivo Gonpachi. Pare che questo ristorante abbia ispirato il design della sala del gran duello finale di Kill Bill. Tutto un po’ tourist trap ma c’é una bella atmosfera e finalmente riesco a bere un Highball drink che va tanto di moda qui in oriente. Si mangia anche un po’ di sashimi ma non é sicuramente abbastanza. Usciamo con l’intenzione di trovare uno di quei bei sushi bar con il bancone che gira tutto attorno ai cuochi che tagliano, sfilettano e assemblano piccole meraviglie di riso e pesce. Troviamo un locale con queste caratteristiche, sembra perfetto. Ci sono quattro giapponesi e altri 4 posti liberi fatti apposta per noi. L’unico inconveniente sta nel fatto che il menu é scritto esclusivamente in giapponese, non ci sono immagini e i cuochi non parlano una parola di inglese. Non una! Ma a noi non importa, abbiamo una tecnica infallibile che sicuramente ci procurerà tante soddisfazioni. Ognuno di noi sceglierà alla cieca e ordinerà per quattro. Infallibile, no? Sbirciando nel piatto degli altri clienti vediamo cose meravigliose e dunque siamo certi che questa carta giapponese che abbiamo davanti agli occhi non può che riservarci godimento. Deve per forza essere una lista di prelibatezze ittico-nipponiche. Lo spirito culinario di un intera nazione racchiuso in una paginetta plastificata tutta decorata di belle iscrizioni ideografiche.

Comincio io. Scorro con il dito questa lista indecifrabile alla ricerca di chissà che cosa. Prendo tempo come se da un momento all’altro potessi avere un’illuminazione confuciana e comprendessi il significato di una di queste linee: “Ah, ma certo, questo é un nigiri e quello un Ikura gunkan maki sushi. Come no! Temporeggio ancora un poco per vedere se qualche porzione di giapponese stampato può in qualche modo assomigliare all’italiano. Non credo! Alla fine mi butto e scelgo. C’era questa serie di caratteri che a mio avviso era esteticamente più apprezzabile di altre, come se si trattasse di un qualche tipo di sushi roll. Il mio intuito infallibile avrà sicuramente scelto bene. Lo percepisco. Mi giro verso gli altri e dico “Scelto!” Richiamo l’attenzione di un cuoco e gli indico col dito la mia scelta sulla carta e poi gli mostro 4 dita per fargli capire che non ne basta uno, eh no, troppo poco – ma hai visto come siamo grandi? – ce ne vogliono quattro porzioni, una a testa. Caro il mio cuoco, questa sera ti svuotiamo il ristorante, ti finiamo le provviste. Domani dovrai fare la spesa grande! Il cuoco mi guarda stupito poi si gira verso il suo collega e gli indica quello che ho ordinato. Sembrano perplessi.

Accidenti! Questa reazione non promette bene. Devo aver toppato alla grande.  Riusciamo però ad ordinare un paio di caraffette di sake che rendono l’attesa più tranquilla.

Giungono infine in tavola quattro piattini con con 2 bacelli di fave bollite a testa. Non ho quasi niente da dire. Buone le fave, per carità… Ma ci eravamo immaginati altro. Anche gli altri clienti, con ancora tra le bacchette morbidissimi tranci di toro sashimi, guardano perplessi mentre apriamo i bacelli. “Ma che buoni i bacelli! Ah… signori! Questi bacelli sono veramente ottimi. Degli ottimi esemplari di bacello di fava”. Vabbé, se alla prima non ci é andata bene, andrà bene la seconda. Sceglie Eero ora. La tecnica é sempre la stessa. Si punta il dito sul menu e si ordina X 4. Vediamo come va a finire questa volta. Capiamo subito che anche questa seconda scelta non rientra nella normalità perché il cuoco non ha proprio idea di come si prepari questa cosa. Comincia la consultazione tra i due cuochi. Quello più esperto cerca di spiegare all’altro come si prepara quello che abbiamo ordinato e noi capiamo purtroppo di aver toppato una seconda volta. Ma com’é possibile? Ma cosa abbiamo ordinato questa volta? O si tratta di un piatto talmente prestigioso che solo il sushi chef ha il diritto e la competenza per prepararlo oppure abbiamo scelto qualcosa che nessuno di solito ordina, dunque una merda.

Arrivano quattro ciotoline con della roba viscida di chiara origine animale tutta ricoperta di salsa agrodolce che mi ricorda vagamente una specie di senape. Non abbiamo idea di cosa sia. Cerchiamo di chiedere al cuoco ma é un impresa che non può avere successo, anzi, i due cuochi ricominciano a consultarsi intensamente. “Non fa niente, va bene così. Arigato gozaimas“. Anche in questo caso non é esattamente quello che ci aspettavamo. Ora arriva il turno di Pat e inanelliamo la terza sconfitta di fila con un ordine dall’apparenza e consistenza sconcertanti. Sia ben chiaro che io sono in grado di mangiare qualsiasi cosa, meccanicamente parlando riesco ad inghiottire qualsiasi cibo e dunque questo strano salsicciotto verde biancastro che il cuoco taglia a fettine di un paio di millimetri di spessore va giù in ogni caso e senza esitazione, nonostante la consistenza dura, gommosa e non particolarmente saporita. Al quarto tentativo forse riusciamo ad assaggiare un po’ di pesce ma non ricordo bene. Uscendo da questo locale il bilancio é chiaramente negativo e si rende dunque necessaria la ricerca di un altro ristorante. Entriamo in un locale dall’atmosfera un po’ lounge, scalzi, con luci soffuse, pavimenti in legno e tavoli ad altezza caviglia. Qui finalmente mangiamo cibo riconoscibile dalla carta del menu e beviamo ancora dell’ottimo sake. Verso l’una del mattino camminiamo nella notte arancione scuro, siamo avvolti nel velluto porpora e scivoliamo tra i palazzi, attraversiamo gli incroci, siamo leggeri, infaticabili e spensierati. Troviamo poi un whisky bar con staff abbastanda cordiale ma non fino al punto da farci lo sconto per un Macallan del ’70 che avrei veramente voluto assaggiare ma al quale ho rinunciato. Sta al secondo piano di una piccola palazzina. L’atmosfera é un po’ lynch-kubrickiana, tutto scuro qua dentro e curiosi personaggi al bancone che fumano robustos mentre Mr. Grady lucida i bicchieri.

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Lunedì mattina splende il sole sul Giappone. Questa é la giornata che aspettavo con impazienza fin dalla partenza. Oggi é in programma la visita a Tsukiji, il più grande mercato del pesce al mondo. Mi alzo con un anomalo giramento di testa. Le cose si complicano in metropolitana durante l’ora di punta. Devo uscire all’aria aperta in fretta altrimenti vomito. Facciamo qualche isolato a piedi poi gli altri continuano in taxi mentre io cerco di riprendermi un po’. Arrivo nei pressi di un parco e mi devo mettere a sedere un attimo. Ma non mi può capitare sta roba proprio oggi. Dopo una quidicina di minuti arrivo al mercato e lentamente comincia la mia guarigione. Mi ci butto dentro, in questo quartiere-mercato estremamente caotico ma fondamentalmente tranquillo. Devi avere gli occhi tutt’intorno alla testa perché arrivano potenziali pericoli da ogni direzione. I mercanti girano a bordo di carretti elettrici con un grosso volante davanti e sfrecciano tra le strette viuzze di questo enorme mercato coperto. Giro in un frenetico stato di sbalordimento cercando di cogliere con la mia macchina fotografica quante più immagini possibili. Voglio cogliere l’essenza di questo luogo. Si vende praticamente tutto ciò che il mare può offrire di commestibile: ogni tipo di pesce, mollusco e crostaceo. Degli sciabolatori samurai tagliano tonni interi con un armamentario spettacolare di coltelli di ogni dimensione. Sangue, teste di tonno, pinne dorsali, conchiglie, polistirolo, acqua ovunque, cubi di ghiaccio, biciclette, legno e ferro. Al termine della visita riesco a ricongiungermi con il gruppo. Facciamo visita alle bancarelle che si trovano al di fuori dell’area coperta del mercato dove compero fish jerky in grande quantità oltre a dell’ ottimo tè e una bella teiera.

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DSC_0509Nel primo pomeriggio rendiamo visita al palazzo dell’imperatore. Il parco che lo circonda é gigantesco. C’é il fossato con l’acqua, come per ogni castello che si rispetti. Tutte le aree del parco danno l’impressione di essere sottoposte ad un rigido protocollo di sicurezza e se un turista si azzarda solo a mettere il piede oltre una qualsiasi barriera, catenella di delimitazione, partono subito i fischietti incazzati delle guardie, anche da centinaia di metri di distanza. E’ comunque tutto chiuso, non si può entrare da nessuna parte, si può solo fare il giro seguendo il perimetro del parco lanciando qualche occhiata teleobiettiva all’interno. Ci rompiamo presto le palle e ci dirigiamo verso la bella stazione dei treni per fare le prenotazioni del Shinkansen che domani ci porterà a Osaka, 500 km a sud ovest di Tokyo.

DSC_0522Ricordo che in seguito si rende necessaria una pausa per il pranzo. Mangiamo degli ottimi Udon serviti in delle enormi zuppiere in uno degli innumerevoli ristoranti all’interno di un grattacielo nei pressi della stazione. In serata facciamo sosta dapprima in un pub che serve dell’ottimo Hakushu Single Malt ad un ottimo prezzo poi in un bel bar in cui dietro al bancone c’é anche una bella griglia fumosa sulla quale stanno cuocendo un sacco di ottimi spiedini per accompagnare la birra o il sake, come facciamo noi.

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L’indomani partiamo infine per Osaka, di prima mattina. Alla stazione di Tokyo ammiriamo la linea stupefacente dei treni Shinkansen e anche l’efficienza delle squadre di pulizia – le donne tutte vestite di rosa – che prima che i treni partano ripuliscono meticolosamente ogni carrozza. Arriviamo ad Osaka dopo tre ore di viaggio. Portiamo le borse all’albergo ed é già tempo di ripartire. A 15 minuti di treno da Osaka si trova una cittadina con un nome che non può lasciare indifferenti gli appassionati di whisky: Yamazaki! La culla del whisky giapponese. Accanto all’impressionante whisky library ci regaliamo una spettacolare degustazione dei prodotti della casa.

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Irish Pub

Oggi sono andato a farmi un giretto durante la pausa pranzo. Climaticamente questa è probabilmente la prima vera giornata di primavera (ma che gioco di parole raffinato). Un gran bel sole generoso, finalmente caldo per davvero. In centro tanta gente a passeggio poi seguendo il lungolago sono arrivato fino al parco Ciani. Tra gli alberi ancora abbastanza spogli si intravvede il Liceo di Lugano. Ma cazzo, devo dire che è proprio bello, tutto ocra, imponente e storico. I prati del parco sono tutti occupati dagli studenti in pausa. Negli anni 80 i prati erano abbastanza off limits. Arrivavano i guardiani per farti sloggiare, era roba da drogati.

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Arrivo infine al nuovo arredo naturalistico della foce del Cassarate che tanto mi aveva fatto infuriare quando ancora era solo un progetto. Bello, devo ammetterlo, a vederlo oggi. Forse ogni tanto mi lascio andare un po’ troppo al pessimismo e divento un acido criticone. È anche vero che le casse della città piangono come mai è capitato in passato e dunque se ne poteva fare a meno, comunque resta il fatto che questa passeggiata sia estremamente gradevole. Infine mi sono infilato dentro al pub irlandese di via Ciani – pare che stia diventando un’abitudine – e mi sono regalato una spettacolare Kilkenny, fatta apposta per questa giornata.
Che gran figata rificcarsi in un pub, mettersi al bancone, farsi riempire una bella pinta di birra e rilassarsi, come se fossi in vacanza. Questa è un’abitudine che avevo quasi dimenticato. Di queste cose ne sento proprio il bisogno ognitanto.

PPL

C’é un disco che gira sul piatto del giradischi di casa mia da molti anni. Lo comperai a metà degli anni ottanta quando attraversai la mia fase southern rock. In cima alla lista allora c’erano band come i Lynyrd Skynyrd, 38 Special, Marshall Tucker Band, Molly Hatchet, Outlaws, Blackfoot e chiaramente nell’olimpo del rock sudista, Allman Brothers Band nella veste di “fratelli” fondatori del genere. Quante giornate passate ad ascoltare le epiche schitarrate di Freebird. In Memory of Elisabeth Reed é ancora oggi un ascolto ricorrente, brano strumentale perfetto durante le mie scorribande americane, fatto apposta per essere ascoltato mentre si guida nei deserti del southwest.

PPL-Takin-the-stageC’é però anche quest’altro disco, Live! Takin’ The Stage, non proprio southern rock a dire il vero. Anzi proprio per niente. Decisamente Country Rock. È anche vero che questo sottogenere del country ha certamente influenzato il southern rock ed é spesso presente nel repertorio delle bands che ho citato prima ma i Pure Prairie League arrivano da un’altra galassia.
Questo é uno dei migliori live album degli anni ’70, registrato alla perfezione e suonato con grande intensità da una band che non ha avuto la stessa fortuna di altre bands loro contemporanee.

After Midnight

20150226_201431Questa sera ho rovistato negli scaffali dei miei 33 giri per restituire al giradischi un disco sontuoso di un artista speciale troppo poco celebrato: J.J. Cale con il disco Naturally, registrato nel 1970, che racchiude alcuni brani che hanno fatto la fortuna di artisti riveritissimi e celebratissimi come Eric Clapton e Lynyrd Skynyrd. Casa mia, col camino acceso di sera e il disco che gira sul piatto, luce bassa e Convalmore del 1975 nel bicchiere, ha un’atmosfera unica con le note di After Midnight.