Nipponica

Ricordi stropicciati di una settimana trascorsa in Giappone.

Parte I

Il viaggio in aereo dall’Italia al Giappone é veramente un po’ troppo lungo per i miei gusti ma é reso più sopportabile dalla Economy Premium di Alitalia che mi offre almeno 20 centimetri in più rispetto all’Economy, di vitale importanza per le mie ginocchia. Inoltre gli schienali non sono reclinabili e così si evitano monumentali rotture di scatole. Grazie ai centimetri in più é tutto il sedile che slitta verso il basso come su uno scivolo e ti permette di stare leggermente più orizzontale senza rompere le palle a nessuno.

Alla stazione ferroviaria dell’aeroporto Narita riscuotiamo il JR Pass che tornerà utilissimo sull’arco della settimana.

Portiamo i nostri bagagli all’albergo nel quartiere Chūō, a pochi passi dalle fermate del metro Bakurocho e Kodenmacho. Le stanze sono veramente microscopiche – 10 m² incluso un modulo prefabbricato contenente gabinetto e doccia – ma siamo felici di prenderne possesso. Ricordo una visita al quartiere di Asakusa con una tappa obbligatoria al tempio Sensō-ji, attraversando il Kaminarimon, la porta d’ingresso al viale che conduce al tempio. DSC_0435Noto subito le svastiche dorate che adornano le arcate che sorreggono il tetto. Camminiamo attraverso una folta folla impastata di turisti e devoti. Il cielo é grigio-coperto, le botteghe lungo il viale vendono dolci tradizionali, ombrelli di bambu e carta, souvenir assortiti e schede telefoniche. Giunge anche il magico momento del primo pasto tokyoide. Ci infiliamo dentro al ristorante Sansada, proprio di fianco al Kaminarimon e stiamo abbastanza leggeri con un piatto misto ottimo ma abbastanza caro. Qui vige l’usanza di mettersi a tavola scalzi e il tavolo é veramente bassissimo per noi che sembriamo i LA Lakers. Per stare seduto a tavola assumo una posizione assolutamente innaturale che nel giro di 15 minuti mi procura un bel assortimento di crampi bilaterali.

Usciti dal ristorante godiamo di un ottima veduta aerea dalla cima di un palazzo.

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20150406_21221120150404_192050Ho poi vaghi ricordi di una passeggiata un po’ onirica – forse irrompeva la stanchezza da jet lag – lungo una via abbastanza deserta con negozi di articoli da cucina su entrambi i lati. Era forse l’ora della chiusura, cominciavo ad avere allucinazioni da spossatezza, ma il ricordo che ho é quello di un passaggio esteticamente raffinato, anche tra gli scaffali stracolmi di vasellame, caraffette da sake, servizi da tè e spettacolari vetrine di sampuru (da sample), cioé i piatti in plastica o ceramica che riproducono in modo estremamente realistico le pietanze servite nei ristoranti.

Poi in metro raggiungiamo Ueno e cominciamo a percorrere delle affollatissime strade popolari che seguono la linea ferroviaria sopraelevata. Gli spazi al di sotto dei binari sono tutti occupati da negozi e ristoranti. Questo é il clima che mi piace. Lentamente cominciamo a percepire un’atmosfera vagamente bladerunneriana. Ci sediamo all’esterno di un primo locale e ordiniamo subito 4 birre e un po’ di spiedini alla griglia con un po’ di contorno. Al tavolo di fianco al nostro esigono un brindisi con noi. Ci si saluta e si brinda senza che si sia in grado di comprendere una sola parola delle nostre conversazioni incrociate. Loro solo in giapponese noi solo in italiano con un po’ di inglese.  Tutto perfetto direi. Fa abbastanza fresco questa sera e siamo tutti coperti e incappucciati. Al termine di questo spuntino frugale andiamo a cercarci un altro posto.

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Pat intercetta un locale dall’aspetto accogliente e ci precipitiamo dentro. Traditional IZAKAYA house Bi Bi Bi di Akira Tanaka. Questo locale celebra il nostro incontro ufficiale con il sake. L’oste generosissimo, ce lo serve facendolo trabboccare in queste fantastiche scatolette di legno che fungono da sottobicchiere. Accompagnamo questa epica bevuta con pinne secche di pesce e risate. Prima di uscire l’oste ci omaggia con uno spuntino che ci servirà per trovare la strada del ritorno.

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Partiamo alla ricerca di un posto in cui cenare. Qui sotto la sopraelevata si sta maledettamente bene. C’é tutto un mondo laborioso di piccoli businness, un fiume di gente che va e viene, caos urbano, cibo, vetrine fluorescenti, scatole ammucchiate, insegne luminose, il treno che passa, gran baccano, gente che urla, che si urta, folate di cibo cotto, fritto, che ancora sfrigola sui fornelli, fumo, noi avanziamo senza meta, alla ricerca di stimoli. Scoviamo infine questo locale in cui si servono dei ramen abbasanza leggendari e ci mettiamo in coda. Si ordina tutto ad una biglietteria automatica che sembra una slot machine. Attendiamo una decina di minuti prima di poterci sedere – é difficile ottenere una combinazione di 4 posti liberi al bancone di questo stretto locale – ma infine arriva anche il nostro turno. E’ animalesca la voracità con la quale affronto questa scodella di ramen guarniti con maiale affettato e un uovo marrone con il tuorlo quasi trasparente che avrà certamente subito un sapiente metodo di cottura  a me totalmente sconosciuto. Impariamo presto che per mangiare dei ramen bollenti bisogna produrre un suono di risucchio direttamente proporzionale alla temperatura della pasta che si ingerisce. Dopo aver cenato o forse anche prima mi ricordo di essere entrato qualche minuto all’interno di una sala in cui si gioca a Pachinko, il flipper nipponico senza destrezza necessaria. Tutti stanno ipnotizzati davanti alla propria macchina mentre le palline scendono a cascata in un inferno caleidoscopico di luci al neon e rumore industriale.

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La mattina seguente ci riserva la pioggia. E pensare che eravamo venuti in Giappone per ammirare i ciliegi in fiore. E allora andiamo a vederli ugualmente, al parco. Questa pioggia e le temperature non proprio primaverili devono aver rovinato le vacanze a molti giapponesi che a quanto pare si spostano a milioni per assistere al fenomeno della fioritura nei parchi delle più importanti città del Giappone. In effetti li vediamo accamparsi sotto agli alberi, a fare il picnic sotto la pioggia, togliendosi le scarpe, coprendo i piatti con la plastica. Una tristezza…

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Visitiamo il distretto di Akihabara, la città elettrica. Mandrake, uno store multipiano, soddisfa appieno la nostra curiosità in merito ai manga. In altri negozi rimaniamo abbastanza di stucco. Ci sono delle action figures che non ho mai visto nei negozi di giocattoli dalle nostre parti. A mezzogiorno ci infiliamo in un ristorante stretto ma su due piani. Da una ventola sul soffitto scendono ventate di aria caldissima. Scegliamo ancora ramen. Di fuori piove e fa freddo e abbiamo dunque bisogno di qualcosa di caldo. Completiamo la reidratazione con una bella birra.

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Nel pomeriggio ci spostiamo a Shibuya giusto per dare un’occhiata ad uno degli incroci più affollati della terra. Le immagini della gente che lo attraversa contemporaneamente, dai quattro lati della strada e in diagonale, sono famose in tutto il mondo. Ci infiliamo poi in un grande magazzino a pochi passi dall’incrocio. Shibuya 109, the Tokyo’s fashion hotspot for young Japanese women. Qui dentro mi sento veramente fuori luogo. Usciamo poco dopo e ci dirigiamo a Roppongi. Di questa prima parte di pomeriggio ricordo una birra bevuta in una laterale di quella che sembra la Fifth Ave. in versione giapponese. In questa occasione torna utilissimo il mio kit ellettrogeno per ridare succo ai cellulari a secco di energia. Poi entriamo nel suggestivo Gonpachi. Pare che questo ristorante abbia ispirato il design della sala del gran duello finale di Kill Bill. Tutto un po’ tourist trap ma c’é una bella atmosfera e finalmente riesco a bere un Highball drink che va tanto di moda qui in oriente. Si mangia anche un po’ di sashimi ma non é sicuramente abbastanza. Usciamo con l’intenzione di trovare uno di quei bei sushi bar con il bancone che gira tutto attorno ai cuochi che tagliano, sfilettano e assemblano piccole meraviglie di riso e pesce. Troviamo un locale con queste caratteristiche, sembra perfetto. Ci sono quattro giapponesi e altri 4 posti liberi fatti apposta per noi. L’unico inconveniente sta nel fatto che il menu é scritto esclusivamente in giapponese, non ci sono immagini e i cuochi non parlano una parola di inglese. Non una! Ma a noi non importa, abbiamo una tecnica infallibile che sicuramente ci procurerà tante soddisfazioni. Ognuno di noi sceglierà alla cieca e ordinerà per quattro. Infallibile, no? Sbirciando nel piatto degli altri clienti vediamo cose meravigliose e dunque siamo certi che questa carta giapponese che abbiamo davanti agli occhi non può che riservarci godimento. Deve per forza essere una lista di prelibatezze ittico-nipponiche. Lo spirito culinario di un intera nazione racchiuso in una paginetta plastificata tutta decorata di belle iscrizioni ideografiche.

Comincio io. Scorro con il dito questa lista indecifrabile alla ricerca di chissà che cosa. Prendo tempo come se da un momento all’altro potessi avere un’illuminazione confuciana e comprendessi il significato di una di queste linee: “Ah, ma certo, questo é un nigiri e quello un Ikura gunkan maki sushi. Come no! Temporeggio ancora un poco per vedere se qualche porzione di giapponese stampato può in qualche modo assomigliare all’italiano. Non credo! Alla fine mi butto e scelgo. C’era questa serie di caratteri che a mio avviso era esteticamente più apprezzabile di altre, come se si trattasse di un qualche tipo di sushi roll. Il mio intuito infallibile avrà sicuramente scelto bene. Lo percepisco. Mi giro verso gli altri e dico “Scelto!” Richiamo l’attenzione di un cuoco e gli indico col dito la mia scelta sulla carta e poi gli mostro 4 dita per fargli capire che non ne basta uno, eh no, troppo poco – ma hai visto come siamo grandi? – ce ne vogliono quattro porzioni, una a testa. Caro il mio cuoco, questa sera ti svuotiamo il ristorante, ti finiamo le provviste. Domani dovrai fare la spesa grande! Il cuoco mi guarda stupito poi si gira verso il suo collega e gli indica quello che ho ordinato. Sembrano perplessi.

Accidenti! Questa reazione non promette bene. Devo aver toppato alla grande.  Riusciamo però ad ordinare un paio di caraffette di sake che rendono l’attesa più tranquilla.

Giungono infine in tavola quattro piattini con con 2 bacelli di fave bollite a testa. Non ho quasi niente da dire. Buone le fave, per carità… Ma ci eravamo immaginati altro. Anche gli altri clienti, con ancora tra le bacchette morbidissimi tranci di toro sashimi, guardano perplessi mentre apriamo i bacelli. “Ma che buoni i bacelli! Ah… signori! Questi bacelli sono veramente ottimi. Degli ottimi esemplari di bacello di fava”. Vabbé, se alla prima non ci é andata bene, andrà bene la seconda. Sceglie Eero ora. La tecnica é sempre la stessa. Si punta il dito sul menu e si ordina X 4. Vediamo come va a finire questa volta. Capiamo subito che anche questa seconda scelta non rientra nella normalità perché il cuoco non ha proprio idea di come si prepari questa cosa. Comincia la consultazione tra i due cuochi. Quello più esperto cerca di spiegare all’altro come si prepara quello che abbiamo ordinato e noi capiamo purtroppo di aver toppato una seconda volta. Ma com’é possibile? Ma cosa abbiamo ordinato questa volta? O si tratta di un piatto talmente prestigioso che solo il sushi chef ha il diritto e la competenza per prepararlo oppure abbiamo scelto qualcosa che nessuno di solito ordina, dunque una merda.

Arrivano quattro ciotoline con della roba viscida di chiara origine animale tutta ricoperta di salsa agrodolce che mi ricorda vagamente una specie di senape. Non abbiamo idea di cosa sia. Cerchiamo di chiedere al cuoco ma é un impresa che non può avere successo, anzi, i due cuochi ricominciano a consultarsi intensamente. “Non fa niente, va bene così. Arigato gozaimas“. Anche in questo caso non é esattamente quello che ci aspettavamo. Ora arriva il turno di Pat e inanelliamo la terza sconfitta di fila con un ordine dall’apparenza e consistenza sconcertanti. Sia ben chiaro che io sono in grado di mangiare qualsiasi cosa, meccanicamente parlando riesco ad inghiottire qualsiasi cibo e dunque questo strano salsicciotto verde biancastro che il cuoco taglia a fettine di un paio di millimetri di spessore va giù in ogni caso e senza esitazione, nonostante la consistenza dura, gommosa e non particolarmente saporita. Al quarto tentativo forse riusciamo ad assaggiare un po’ di pesce ma non ricordo bene. Uscendo da questo locale il bilancio é chiaramente negativo e si rende dunque necessaria la ricerca di un altro ristorante. Entriamo in un locale dall’atmosfera un po’ lounge, scalzi, con luci soffuse, pavimenti in legno e tavoli ad altezza caviglia. Qui finalmente mangiamo cibo riconoscibile dalla carta del menu e beviamo ancora dell’ottimo sake. Verso l’una del mattino camminiamo nella notte arancione scuro, siamo avvolti nel velluto porpora e scivoliamo tra i palazzi, attraversiamo gli incroci, siamo leggeri, infaticabili e spensierati. Troviamo poi un whisky bar con staff abbastanda cordiale ma non fino al punto da farci lo sconto per un Macallan del ’70 che avrei veramente voluto assaggiare ma al quale ho rinunciato. Sta al secondo piano di una piccola palazzina. L’atmosfera é un po’ lynch-kubrickiana, tutto scuro qua dentro e curiosi personaggi al bancone che fumano robustos mentre Mr. Grady lucida i bicchieri.

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Lunedì mattina splende il sole sul Giappone. Questa é la giornata che aspettavo con impazienza fin dalla partenza. Oggi é in programma la visita a Tsukiji, il più grande mercato del pesce al mondo. Mi alzo con un anomalo giramento di testa. Le cose si complicano in metropolitana durante l’ora di punta. Devo uscire all’aria aperta in fretta altrimenti vomito. Facciamo qualche isolato a piedi poi gli altri continuano in taxi mentre io cerco di riprendermi un po’. Arrivo nei pressi di un parco e mi devo mettere a sedere un attimo. Ma non mi può capitare sta roba proprio oggi. Dopo una quidicina di minuti arrivo al mercato e lentamente comincia la mia guarigione. Mi ci butto dentro, in questo quartiere-mercato estremamente caotico ma fondamentalmente tranquillo. Devi avere gli occhi tutt’intorno alla testa perché arrivano potenziali pericoli da ogni direzione. I mercanti girano a bordo di carretti elettrici con un grosso volante davanti e sfrecciano tra le strette viuzze di questo enorme mercato coperto. Giro in un frenetico stato di sbalordimento cercando di cogliere con la mia macchina fotografica quante più immagini possibili. Voglio cogliere l’essenza di questo luogo. Si vende praticamente tutto ciò che il mare può offrire di commestibile: ogni tipo di pesce, mollusco e crostaceo. Degli sciabolatori samurai tagliano tonni interi con un armamentario spettacolare di coltelli di ogni dimensione. Sangue, teste di tonno, pinne dorsali, conchiglie, polistirolo, acqua ovunque, cubi di ghiaccio, biciclette, legno e ferro. Al termine della visita riesco a ricongiungermi con il gruppo. Facciamo visita alle bancarelle che si trovano al di fuori dell’area coperta del mercato dove compero fish jerky in grande quantità oltre a dell’ ottimo tè e una bella teiera.

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DSC_0509Nel primo pomeriggio rendiamo visita al palazzo dell’imperatore. Il parco che lo circonda é gigantesco. C’é il fossato con l’acqua, come per ogni castello che si rispetti. Tutte le aree del parco danno l’impressione di essere sottoposte ad un rigido protocollo di sicurezza e se un turista si azzarda solo a mettere il piede oltre una qualsiasi barriera, catenella di delimitazione, partono subito i fischietti incazzati delle guardie, anche da centinaia di metri di distanza. E’ comunque tutto chiuso, non si può entrare da nessuna parte, si può solo fare il giro seguendo il perimetro del parco lanciando qualche occhiata teleobiettiva all’interno. Ci rompiamo presto le palle e ci dirigiamo verso la bella stazione dei treni per fare le prenotazioni del Shinkansen che domani ci porterà a Osaka, 500 km a sud ovest di Tokyo.

DSC_0522Ricordo che in seguito si rende necessaria una pausa per il pranzo. Mangiamo degli ottimi Udon serviti in delle enormi zuppiere in uno degli innumerevoli ristoranti all’interno di un grattacielo nei pressi della stazione. In serata facciamo sosta dapprima in un pub che serve dell’ottimo Hakushu Single Malt ad un ottimo prezzo poi in un bel bar in cui dietro al bancone c’é anche una bella griglia fumosa sulla quale stanno cuocendo un sacco di ottimi spiedini per accompagnare la birra o il sake, come facciamo noi.

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L’indomani partiamo infine per Osaka, di prima mattina. Alla stazione di Tokyo ammiriamo la linea stupefacente dei treni Shinkansen e anche l’efficienza delle squadre di pulizia – le donne tutte vestite di rosa – che prima che i treni partano ripuliscono meticolosamente ogni carrozza. Arriviamo ad Osaka dopo tre ore di viaggio. Portiamo le borse all’albergo ed é già tempo di ripartire. A 15 minuti di treno da Osaka si trova una cittadina con un nome che non può lasciare indifferenti gli appassionati di whisky: Yamazaki! La culla del whisky giapponese. Accanto all’impressionante whisky library ci regaliamo una spettacolare degustazione dei prodotti della casa.

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Whisky & Sushi

Interessante serata dedicata al Giappone quella di martedì 28 febbraio, presso Tamborini Vini a Lamone: un assaggio verticale di quattro whisky nipponici accompagnati da sfiziosissimi bocconi preparati dalla Okaeri Take Away di Lugano e un’introduzione al whisky giapponese con degustazione abilmente commentata dal sommelier Marco Rasetti.

Si comincia con il blended Hibiki 17 anni. Al naso profumo di rose, agrumi, melone e pesca bianca. Gusto piuttosto secco con ritorno di agrumi. Il legno in questo caso crea una sensazione astringente guidandomi in un finale medio lungo che mi fa considerare questo whisky un prodotto molto bilanciato e delicato. Mi é stato inevitabile il tentativo di confronto con il Ballantines 17 anni che ricevette tante lodi da parte di Jim Murray sulla “Bibbia” del 2011.

Questo blended é accompagnato da Nigiri di Salmone, Norimaki di Avocado e Norimaki di Tofu.

Poi arriva dell’ottimo Sashimi di tonno, salmone e ama ebi.Per questa nuova transizione assaggio il Yamazaky 12 anni. Al naso Marco Rasetti ci fa notare scorza d’arancia, io percepisco un po di tè sencha ai lamponi e un notevole gusto finale di miele. Proviamo a sorseggiare questo whiski con un po’ di pesce. Sashimi e Yamazaki é un’esperienza spettacolare ma sashimi con una goccia di salsa di soia e Yamazaki é l’assoluta apoteosi della morbidezza burrosa del pesce crudo. Veramente una goduria!

 

Quando assaggio l’Hakushu, che avevo già gustato recentemente, mi rendo conto che si tratta del più torbato  della serata probabilmente, anche se questo termine é forse un po’ troppo forte per definire una sensazione che é giusto la percezione di una certa tostatura presente in questo distillato.

 Gusto di croccante di nocciola in finale. Questa combinazione di gusti porta ad abbinare all’assaggio una tempura di gamberi e avocado (Uramaki Ebi Ten e una tartar di tonno speziato (Uramaki Spicy Tuna).

Il finale trionfale é dedicato allo Yamazaki 18 anni che profuma di uva passa, frutta cotta, il gusto persistente suggerisce anche della polvere di cacao e pere e mele  cotte. Lo accompagnamo con Tako Yaki (polpette di pastella con ripieno di pollo e salsa agrodolce. Guscio esterno apparentemente freddo con un nucleo di mille gradi che come fece un tempo il ragionier Fantozzi, ingoio in un solo boccone evitando solo per miracolo una orribile ustione. Quest’ultima bottiglia tornerà a casa con me.

Gyokuro

A questo punto corro veramente il rischio di calarmi al 100% in un nuovo mondo, catturato da una nuova passione.
Se scrivo Gyokuro in un primo momento vi chiederete “ma che sta scrivendo questo?” poi vi si accenderà una lampadina nelle testoline: “Ah! Sarà il nome di un nuovo whisky appena scoperto. Se solo si dedicasse un po’ di più alla Scozia senza andare a rovistare tra i distillati d’estremo oriente”. Va bene, mi fermo subito e vi rivelo che non si tratta nè di whisky, nè di un mostro giapponese nè di una curiosa pratica sessuale orientale bensì di thè. Ebbene si, quella pianta seccata con la quale si fa un’infusione in acqua calda.

Vi chiederete ancora “ma che c’entra col deserto, con la musica, con il viaggio?” Niente. “E con il vuoto?” Ma che ne so. “E allora perché ne parli?” Non ne ho idea in verità.

Sabato scorso sono andato, come capita spesso in autunno, dal mio fornitore di thè a fare scorta di Sencha, il thè di facile beva per eccellenza e un po’ di thè al gelsomino. Io sono un grande bevitore di thè nel senso che ne bevo in grande quantità ma non sono un grande conoscitore. Prima di uscire dalla bottega penso che avrei bisogno di un altro thè da aggiungere ai miei acquisti e sento il negoziante fare il nome di questo thè. “Prendo anche un sacchetto di quello” gli dico subito. “Oh, Gyokuro! questo é veramente un thè speciale.” I giapponesi bevono il Sencha come thè di tutti i giorni ma nelle occasioni speciali bevono questo thè dal profumo delicato e curioso, almeno per il mio olfatto che non é abituato a questa gamma di odori.

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Mi racconta che il Gyokuro viene coltivato all’ombra, perlomeno nelle settimane precendenti la raccolta in modo da innescare una sovrapproduzione di clorofilla che rende questo thè di colore verde intenso e di gusto più dolce e meno tanninico. Dopo un po’ di navigazione raccolgo diverse informazioni interessanti e utili in merito a questa pregiata bevanda. E’ importante non usare acqua bollente ma raffreddata a 60°C percui una pratica corretta consiste nel far bollire l’acqua necessaria che viene poi versata nella teiera per farla raffreddare. Dalla teiera passa alle tazzine in modo da poterla raffreddare ulteriormente. A questo punto possiamo mettere le foglie di Gyokuro nella teiera dopo averla opportunamente asciugata. Rimettiamo infine l’acqua nella teiera, copriamo e aspettiamo un minuto e mezzo. Ora il thè può essere servito. In Giappone il Gyokuro viene bevuto in minuscoli bicchieri come se si trattasse di un pregiatissimo distillato che deve essere centellinato.

Aggiungo con piacere questo nuovo rito alla mia consumazione di liquidi.

Made in Japan

Oggi, forse un po’ ispirato dalla lettura di un breve post dedicato ad una bottiglia di Yamazaki Single Malt letto velocemente su un blog abbastanza anonimo, forse grazie all’atmosfera autunnale che offre una paletta di colori spettacolari, ho ritenuto opportuno soffermarmi un momento sulla produzione di whisky nipponico. Spesso quando ne parlo ad amici e conoscenti, la reazione più diffusa é quella della diffidenza. Si pensa che dal paese della plastica e dell’alta tecnologia non possa giungere un prodotto che qui in Europa vanta tradizioni centenarie, un distillato che richiede cura ed estrema pazienza per raggiungere la giusta maturazione. Forse é un po’ snobbata, forse piuttosto sconosciuta ma la produzione di whisky in Giappone, invece, offre al mondo dei distillati assolutamente fantastici. Si tratta pure di una grande produzione. Siamo infatti ben al di sopra dei numeri delle microdistillerie d’Europa (Scozia e Irlanda escluse, ovviamente). Signori, quando parliamo di Giappone parliamo del secondo produttore di single malt whisky al mondo!

Sorseggio di tanto in tanto un paio bottiglie di whisky giapponese entrambe pregevoli. Mi fa sempre molto piacere gustare buon whisky anche non scozzese.

Ero a Edinburgo un paio di anni fa, all’interno del magnifico Royal Mile Whiskies Shop, lungo la strada che sale fino al castello. Karuizawa-Vintage-6978-1992Mi fu proposto un assaggio di Karuizawa Vintage e rimasi veramente folgorato. Non avevo mai provato un whisky giapponese e non sapevo cosa aspettarmi. Temevo di sperimentare un sapore strano, curioso, diverso. Ma io non volevo provare niente di strano, volevo solo provare un buon whisky. Quell’assaggio mi traquillizzò e mi conquistò immediatamente. Si, era diverso, in effetti, ma era un whisky, senza compromessi. Non “abbassavo l’asticella” per poi cercare di trovare cosa c’era di buono in un prodotto mediocre. Niente di questo. Stavo assaporando un whisky maturo, complesso con una storia lunga che solo pochi paesi possono vantare. Ne più ne meno di un buon whisky scozzese.

Il Giappone, inoltre ha il fattore Isola dalla sua parte. L’aria di mare arricchisce diversi whisky giapponesi delle note salmastre e iodiche che si possono sperimentare assaggiando i whisky dell’Islay in Scozia, per esempio. Poi me li vedo i giapponesi, tutti precisi e meticolosi, totalmente fedeli alla loro tradizione che percorrono con precisione maniacale tutte le fasi della preparazione del whisky. Dalla loro indole non può che nascere un buon prodotto.

Malt Whisky Yearbook 2010Sul Malt Whisky Yearbook (l’edizione 2010 é disponibile da un paio di settimane. EVVIVA!) sono consultabili le schede di 10 distillerie, di cui una smantellata e una con produzione interrotta. Diverse distillerie contano una capacità produttiva nell’ordine dei milioni di litri di puro alcohol. Segnalo inoltre un’interessante  mappa delle distillerie giapponesi tratta dal fantastico blog interamente dedicato al whisky del sol levante Nonjatta. Adesso é giunto il momento di assaggiare un goccio di Hakushu Single Malt Whisky invecchiato 12 anni.  Il prossimo acquisto sarà quasi certamente un nuovo whisky giapponese. Ci sono infatti interessanti consigli da parte di Jim Murray. Ora che sto assaggiando il whisky nipponico mi manca solo una buona musica di sottofondo ma non ho proprio idea….

TNT TortoiseIndeciso tra  le “Mule Variations” di Tom Waits e i “Travels” di Pat Metheny ho optato per lo stupefacente TNT dei Tortoise, una intelligente combinazione di rock, minimalismo elettronico e jazz. Un viaggio decisamente ipnotico, una sorta di psichedelia intelligente, colta e consapevole. Ma questo disco é rimasto troppo tempo sui miei scaffali senza che lo degnassi di un ascolto! Mettiamo per un momento da parte i lamenti delle montagne dell’eastern Kentucky e lasciamoci trasportare dall’intelligenza compositiva del sestetto di Chicago.