Petaluma

Oggi mi sono svegliato sotto l’inconfondibile nebbia del Pacifico. Tutto sembra sospeso. I gabbiani fanno già un gran fracasso. Vado a dare un’occhiata all’oceano. Potrebbe sbucare fuori dalla nebbia in ogni momento la Perla Nera di Jack Sparrow con il suo equipaggio fantasma.

nebbia

Adesso sto pacificamente gustandomi una Sierra Nevada Pale Ale a Santa Cruz. Mentre da noi per i turisti fanno girare per le vie del centro una macchinina elettrica camuffata da trenino con i vagoni attaccati carichi di germanici, qua a Santa Cruz fanno qualcosa di analogo solo che in strada ci sono i binari e il treno é un vero Southern Pacific con motrice e otto vagoni per una lunghezza complessiva di un centinaio di metri. Lo dico sempre, qua in USA fanno tutto in grande. Ieri al ristorante a Monterey c’era una lista d’attesa di circa 20 minuti. I camerieri, attrezzatissimi, forniscono i clienti di un pager che vibra e suona quando il tavolo é disponibile. Tu, intanto, puoi girare tranquillamente per negozi fino a che non é il tuo turno.

Bene signori, Questo pomeriggio ho lasciato santa Cruz, il suo lunapark e il suo molo d’asfalto detentore del record del mondo di lunghezza. Era mia intenzione recarmi a nord di Frisco per passare l’ultima notte fuori città. Avevo pensato a Bodega Bay, dove sono già stato peraltro. Cercando di raggiungere la mia destinazione passo attraverso una cittadina dal nome curioso. Petaluma. Mentre attraverso downtown rimango colpito dalla bellezza degli edifici e dalla vitalità del centro ma io devo andare a Bodega e allora tiro dritto. Mi lascio Petaluma alle spalle e ritorno in aperta campagna. Davanti a me, in lontananza, vedo le nuvole che salgono veloci dal Pacifico e Bodega si trova proprio la, probabilmente già avvolta dalla nebbia mentre alle mie spalle vedo ancora in lontananza la soleggiata e calda Petaluma. Allora mi dico, ma vaffanculo Puttana Bay io questa sera torno a Petaluma.

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Porca troia che ennesima intuizione. Petaluma é fantastica! Una piccola cittadina tutta piena di bei negozi e ristoranti da tutte le parti. Bei ristoranti, intendo, mica merda. Lungo una via del centro, inoltre, c’é un mercato agricolo e stanno vendendo della verdura magnifica. Ad ogni angolo  di strada  ci sono gruppetti che suonano. Chi Jazz, chi Funk e chi Folk Music. Ma dove sono capitato? Ho trovato posto al Best Western dove mi hanno consigliato di fare sosta da Dempsey’s, una birreria in centro nella quale mi trovo orora. Sto bevendo la loro Strong Ale che senza esagerare é uno degli Ale più buoni che io abbia mai assaggiato in tutta la mia vita focomelica.

Sto mangiando un’eccellente insalata verde su un letto di barbabietole con noci e pezzetti di Roquefort. Percepisco anche del coriandolo. Dire solo che é buono é veramente mancare di rispetto. Favoloso, direi. Il pane, fatto con la farina bigia, é buono e ha la crosta dura! Io lo farei così a casa. Signori, Roquefort e barbabietole… Spero che non ci abbiano pensato per primi gli americani. Adesso l’entrée. Salmone su un letto di zucchine grigliate alla perfezione. No, cazzo, sono senza parole. Con un cappello di cipolla lessa tagliata a striscioline che col salmone sembra nata per starci assieme. Poi qua e la qualche pomodorino cherry e qualche chicco di mais cotto e grigliato per dare un tocco dolce alle zucchine. Si vede che é un piatto costruito da qualcuno preoccupato dal gusto, qualcuno che conosce i sapori e dosa gli ingredienti per ottenere armonia. Veramente il risotto all’arancia del Principe Leopoldo qualche mese fa stava nella categoria “mensa dei poveri” a confronto. Questa é veramente tutta la differenza che passa tra l’esserci e il farci, tra apparenza e sostanza. In più ripeto che la birra é spettacolare. Siamo semplicemente in una Brewery. Signori marcatevi questo nome: Petaluma. Il cameriere assomiglia a Steve Martin.

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La California sa vivere, non ci son cazzi che tengano. Che scelta azzeccata oggi. Mi immagino tutto infreddolito a Bodega Bay a mangiare filetto di Halibut sfigato accompagnato da un po’ di riso insipido con tutto il peso della responsabilità lasciato al vino californiano. Che sforzo!

Ok, é deciso. Chiamerò mia figlia Petaluma, di primo nome. Petaluma Strong Ale!

E come se non bastasse, la procace Denise, al parcheggio, mi chiede se non posso dare a lei e a suo fratello un passaggio a casa perché lui é too drunk to drive e io, preso oramai dall’entusiasmo per questa cittadina dico ma perché no? Come on, I’m not from here but if you show me the way I’ll take you home.

Avrei tirato su chiunque, anche se avesse avuto l’aspetto di Charles Manson.

The Woodsongs Old Time Radio Hour

The Woodsongs Old Time Radio Hour

Intanto per chiudere questo post vi dico che é disponibile il video del concerto di Neko Case al quale ho assistito il 22 luglio.

Rock Novak

Ieri sono infine uscito dal deserto. In mattinata ho fatto tappa a Beatty per fare il pieno al mio cavallo di ferro. Beve tantissimo in questi giorni. Sarà il caldo. Subito dopo mi é sembrato doveroso fare una breve sosta a Rhyolite. Le immagini di questa ghost town sono il motivo per cui sono partito per gli USA nel 2007. Ricordo ancora perfettamente un email spedito in cui scrivevo “Io devo andare a Rhyolite”. Ebbene, adesso, in questo preciso istante sono a Rhyolite. Di nuovo. Me la sto guardando. I suoi ruderi si addicono alla fotografia panoramica. Oggi la temperatura é assai più sopportabile. C’é qualche nuvola che vela il cielo e abbiamo otto/dieci gradi in meno da sopportare. Dopo Rhyolite una breve tappa a Furnace Creek giusto per mandar giù una Sam gelata prima di ripartire per una meta non ancora precisa. Sono al bar del Furnace Creek Ranch e sto godendomi la Sam come non ho quasi mai fatto in tutta la mia vita. Ci sono veramente pochissime birre che detengono il primato nella mia vita e questa é una di quelle. Decido che per ritrovare la costa del Pacifico uscirò dalla Death Valley seguendo una nuova strada mai percorsa in precendenza. Faccio rotta verso la Panamint Valley in direzione di Trona. Il primo tratto é quello che porta in direzione del Wild Rose Canyon, visitato qualche anno prima, poi invece ci si immerge in questa enorme valle quasi disabitata con la classica strada dritta e lunghissima che la attraversa. Ad un certo punto leggo “Ballarat Ghost Town”. Una strada in terra battuta devia a sinistra e io chiaramente non resisto e mi ci butto dentro. Procedo a 40 miglia orarie. Le ruote ballano e di dietro sollevo un magnifico polverone ascoltando Marc Johnson accompagnato dalle chitarre leggere e atmosferiche di Bill Frisell e Pat Metheny.

Dopo una decina di minuti di polvere arrivo in quello che sembra un accampamento post atomico tratto da Mad Max. Alcuni Trailer e qualche RV sono parcheggiati non lontano. Un cartello mi consiglia di fermarmi, uscire ed esplorare piuttosto che stare fermo in auto.

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Da una casupola vedo uscire un uomo dall’aspetto perfettamente “Deliverance”, oppure “The Hills Have Eyes” Mi avvicino. How are you? I’m fine, how are you today, sir. Gli rispondo.
Good, oggi si sta un po’ meglio di ieri. Come on in, I have cool sodas. Mi fa entrare in una specie di autorimessa tutta piena di baracche e roba rotta. Un cane sta boccheggiando su una poltrona tutta sgualcita. Un poster di una tettona é appeso proprio sopra al frigo. Lui lo apre e ci sono 2 bottigliette d’acqua e 500 lattine di Bud. What about a beer? Gli chiedo. Allright. Mi stappo questa Bud nella calura mentre lui mi indica un pickup tutto arrugginito proprio davanti a noi. That’s Charles Manson pick-up right there. There’s the cemetary. Quell’edificio la in fondo é la prigione. Isn’t that funny? E quello era il motel. Troverai la scritta No Vacancy abbastanza ironica, Mi dice. Capisco che nonostante l’aspetto totalmente inquietante, Rock Novak, questo é il suo nome, é pure dotato di un buon senso dello humor.

manson

Mi spiega che i trailer che vedo vicino al cimitero sono degli operai che lavorano alla miniera d’oro ancora in funzione a Pleasant Canyon. Si tratta di lavoratori che vengono da Isabella, da Trona e tornano a casa solo per il weekend. Una miniera d’oro ancora in funzione! Fantastico! Ci lavorano circa sessanta persone 24 ore su 24. La sera tornano a Ballarat nei loro trailers fermandosi da Novak per una Bud. Rock mi dice pure che é pieno di gente stupida che viene nel deserto totalmente sprovveduta, va a farsi dei giri credendo di essere seduta davati alla propria televisione nel salotto di casa e poi ci lascia le penne in una qualche gola nascosta della Panamint Valley. Gli dico che anche io sono spesso sorpreso dalla stupidità della gente che in luoghi così severi fa cose che i locali non farebbero mai. Rock mi corregge subito. Qui é pieno di gente stupida come ovunque, che fa cose che poi paga a caro prezzo. Siamo tutti uguali, Da qualsiasi parte veniamo. Siamo tutti stupidi.

Devo dire che sto Novak mi convince sempre di più. Gli chiedo se posso fare una fotografia nella sua rimessa. Oh, no problem. Go for it. Take all the pictures you want. Dopodiché lo saluto vado a scattare ancora qualche foto ai ruderi di Ballarat e poi parto in direzione della costa.

Salgo seguendo la 178 West verso il Giant Sequoia National Monument che però non riesco a visitare. Si sta facendo sera e devo assolutamente raggiungere un posto per dormire in tempo utile. Comincio dunque a ridiscendere dall’altro versante della Sierra. Il sole che é rimasto nascosto dietro a delle alte nubi per tutto il pomeriggio si fa finalmente vedere e comincia dunque un meraviglioso spettacolo lungo le colline di erba gialla della California. Cerco di andare abbastanza spedito per non perdermi un tramonto mozzafiato da immortalare con una delle mie panoramiche. Incontro mucche, scoiattoli e cervi lungo la strada poi ad un certo punto, passata una curva, venti metri davanti a me vedo uno strano animale accovacciato in mezzo alla strada. Sarà un altro roadkill? No, non può essere sta proprio accovacciato. Mi semmbra un gatto dalla posizione, ma no, non può essere. Le proporzioni non tornano. E’ troppo lontano e troppo grande. Ho il riflesso nel retro del mio cervelletto bituminoso di prendere la macchina fotografica ma inconsapevolmente non fermo l’auto che continua a muoversi lentamente. L’animale che non mi cagava neanche di striscio perché probabilmente completamente assorto nella contemplazione di una possibile preda si accorge infine della mia presenza, si alza, si gira e scappa nella boscaglia. Si trattava di una magnifica lince alta una quarantina di centimentri per ottanta di lunghezza. E’ la prima volta che ne vedo una nella mia vita stronza. Sono felicissimo di averla nella mia memoria. Riparto alla caccia del tramonto. L’aria ha un odore magnifico, di agricoltura, di terra lavorata, di letame, di campi che trasudano. Mi ricorda tanto l’odore del Kibbutz Revivim in Israele. Fantastico.

Arrivo alle 9 di sera a Porterville. Non so esattamente dove sia ma adesso ho veramente bisogno di fermarmi, bere una birra mangiare e dormire.

Oggi alle 20 e 15 ho finalmente terminato la mia rincorsa al sole. L’ho visto gettarsi da qualche parte lontano nel Pacifico. Io stavo tra gli scogli un po’ prima di Carmel. L’epilogo perfetto di un’altra giornata magnifica. In mattinata ho attraversato la California rurale, quella dei campi coltivati, dei messicani clandestini.

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Adesso sono seduto all’Old Fisherman Grotto e qua al tavolo di fianco al mio stanno parlando di Belli, Montecarasso e Biasca. Madonna che rottura di palle. Rimpiango quasi i francesi. Ah, dimenticavo, mi trovo a Monterey e oggi sono arrivato ascoltando quasi esclusivamente CSN e Jefferson Airplane. Che emozione questa strada! La 1 intendo. Percorrerla é in effetti come riascoltare un magnifico disco; Conosco già la musica ma é sempre un gran piacere che mi rigusto volentieri. Sono arrivato sulla 1 a Cambria, poco dopo Morro Bay. Che strada fantastica.

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Me la sono proprio goduta. Ogni tornante, ogni punto panoramico. Adesso sto mangiando uno spada all hawaiiana. Non so di preciso quale sia il valore aggiunto hawaiiano se non che probabilmente alle Hawaii hanno i broccoli e le carote come da noi e come appetizer un insalata di polpa di granchio. Ottimo comunque, il tutto accompagnato da due ottimi bicchieri di Pinot Grigio. Ah che figata! Tutto ottimo questa sera qui a Monterey.

23 miles of perfection

Bene, adesso non vorrei apparire coglione qui al bar del TI mentre scrivo e mi ciuccio un buon Booker’s. Questo pomeriggio mi sono letteralmente massacrato a fare su e giù per Las Vegas Boulevard.

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Adesso ho le gambe distrutte, ho già buttato nel cesso 40$ in un attimo ma ho mangiato da re al Buffet dell’Harras. Adesso cerco di perdere altri 60$ poi mi fermo. Oggi sono ancora riuscito a percorrere l’ennesimo tratto di 66 da Kingman fino a Oatman. Il caldo nel frattempo si é fatto notevole: 116 F, che non so quanto sia, ma qui nel deserto paiono un fottio di gradi allucinanti.

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Prima di arrivare a Oatman mi sono fermato ad una piccola e isolata pompa di benzina. Anche qui come mi era già capitato in passato mi sono trovato confrontato con il proprietario assai diffidente: Where are you from? Germany? No, Switzerland Dev’essere costosa l’attrezzatura che ti porti dietro, perché sei qui? Mah, prima di tutto volevo comperare qualcosa da mangiare poi se non ci sono problemi avrei l’intenzione di scattare una fotografia qui fuori. Perché vuoi scattare una foto? Perché mi piace il posto. Poi ha cominciato a spiegarmi che l’edificio é registrato nel patrimonio nazionale e che non ha nessun problema a fare scattare foto e quant’altro a patto che non si vendano o che perlomento gli si chieda il permesso. Qualche tempo addietro aveva avuto una brutta esperienza con un tedesco che si era mostrato molto aggressivo nel momento in cui lui gli aveva fatto qualche domanda in merito all’utilizzo delle foto. Per cui da allora lui é diffidente e io aggiungerei un po’ paranoico. Un omone dall’aspetto e dall’atteggiamento simili a quelli di John Goodman in “The Big Lebowski”. La valle di lacrime, per intenderci.
Dopo averlo tranquillizzato sulle mie intenzioni si é calmato e ha cominciato a raccontarmi delle storie. Gli ho detto che oggi era veramente caldo e lui mi ha risposto Oh yea, hot as hell, actually I’ve been to hell. The devil took a bite of me and let go over. Sai, io sono morto una volta. Mi dice serio e poi mi fissa. Ah si? Rilancio io mentre cerco di capire se mi trovo davanti ad un pazzo scatenato oppure a qualcuno che ha una strana storia da raccontare. Mi trovavo in un campo a lavorare con dei macchinari per l’irrigazione (così mi pare di aver capito) che funzionano con nitrogeno e sono stato colpito in pieno petto da una spruzzata di gas a -200°. Ho smesso di respirare e dopo un po’ mi son visto da 100 metri d’altezza, Vedevo me a terra e mia moglie che cercava di soccorrermi. Poi sono riuscito a fare il primo respiro e sono ritornato a terra. Poi mi ha pure raccontato del roadrunner che viene a mangiargli dalla mano. L’unico uccello che non vola e mangia carne di prede che lui stesso uccide. Arriva fino a 70 miglia di velocità mi dice e uccide i serpenti a sonagli. Io non ho mai nemmeno capito se si tratti di un animale vero oppure solo di un disegno animato.

Intanto mi son fatto un’ottima Sam Adams per colazione.

E’ sempre speciale passare la notte nella Death Valley, solo che questa volta non mi trovo a Furnace Creek bensì a Stovepipe Wells. Lo stile é un po’ più spartano ma questo aggiunge più fascino al pernottamento. Questa volta il mio avvicinamento alla Death e avvenuto da est e in effetti é un’esperienza un po’ meno mistica, se mi é concesso, dell’arrivo da ovest. Di solito si comincia con la lunga discesa da Yosemite che ti immerge progressivamente in un ambiente sempre più desertico, poi c’é il passaggio attraverso Bishop dove di solito ci si ferma per un tardo pranzo e per una birra preparatoria. Poi si riparte e a Lone Pine si volta a sinistra. C’é l’impatto con quella che abbiamo ribattezzato Pre-Death (Panamint Valley, in verità). La prima volta che venimmo in USA pensammo che si trattasse della Valle della Morte vera e propria. Poi ci fu lo stupore quando cominciò la lunga discesa verso Stovepipe Wells e la Death Valley.

Questa volta niente di tutto ciò. Sono partito alle 9 e 30 da Las Vegas, ho fatto il pieno a Pahrump con grande rifornimento d’acqua (2 galloni e mezzo = 7 litri) e poi in un istante ero già nella Death.
Percui prima tappa pomeridiana al Dante’s view point su in alto (quasi 2000m d’altezza) Temperatura perfetta. La valle sta proprio sotto e io so che questo benessere é solo un’illusione. Comincio quindi a scendere fino a Furnace Creek e il termometro sale fino a 121 F e stare fuori dall’auto é un’impresa. Fantastico. Ho quasi paura che la mia attezzatura fotografica fonda. Supero Furnace e vado a depositare le mie cianfrusaglie a Stovepipe. Il pomeriggio lo dedico a Pete Aguereberry visitando e fotografando il suo accampamento e rivisitando il punto panoramico da lui scoperto.

Oggi sta per terminare il mio secondo giorno di esplorazioni qui nella valle della morte cominciato questa mattina alle 5 e 30 con una sveglia spontanea dettata anche da un brutto incubo che ho avuto. Strano perché il sogno stava andando alla grande: avevo conosciuto Bruce Springsteen. Vabbé, dicevo che mi sono svegliato presto percui ho deciso di assistere alla sorgere del sole questa volta sulle dune di sabbia che si trovano proprio qui vicino a Stovepipe Wells.

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Timing perfetto come al solito e un paio di panoramiche abbastanza pregevoli a mio avviso, poi ritorno a Stovepipe e colazione veloce, poi partenza in direzione di Beatty per fare il pieno all’auto. Riparto da Beatty e vedo la deviazione per Titus Canyon. L’ultima volta ci ero passato praticamente di notte e si era trattato di una discesa assai suggestiva. Adesso però ho voglia di farmela con la luce. Mi auguro solo che il mio Toyota sia veramente un 4×4 e non uno di quei Rav 2WD, ma c’é scritto 4WD perciò dovrei stare tranquillo. Comunque la spia 4WD sul cruscotto non si accende mai. Inoltre ieri l’auto ha cominciato a fare degli strani rumori e non é proprio il caso di immerdarsi lungo il tragitto che sto per percorrere. Diciamo che non é una strada battutissima.

verso-leadfield

Comincio a percorrerla e mi rendo presto conto che non ci saranno problemi. Dopo un ora arrivo alla ghost town di Leadfield e finalmente vedo le poche baracche rimaste ancora in piedi.

leadfield

Vado subito a scattare un po’ di foto. La temperatura e più che accettabile (36/37) e comincio così la lenta discesa lungo il Titus Canyon. Le pareti sono ancora più alte di come me le ero immaginate di notte. Dopo 2 ore e mezza complessive esco finalmente dal canyon e mi preparo per una nuova esplorazione. E’ già mezzogiorno e vado dunque a prendermi qualcosa da mangiare. Uscendo dal Canyon la temperatura si fa sempre più estrema e quando arrivo a Stovepipe siamo sui 48 °C.
48
Decido però di viaggiare con i finestrini abbassati e senza aria condizionata giusto per sperimentare la calura estrema. Dopo un po’ mi abituo e mi sembra di viaggiare in una sauna.

Questa sera sono andato a mangiare a Furnace Creek. La strada da Stovepipe a Furnace mi ha visto ritrovare la totale armonia. 23 miglia di perfezione fisica e mentale. Steve Earle col suo rispettoso omaggio a Townes Van Zant era la colonna sonora naturale. Il sole é già calato da un’ora e la luna é già alta in cielo. Ne avevo bisogno.
Questo pomeriggio mi sono massacrato per prendere qualche panoramica a Ubehebe Crater. Tirava un vento pazzesco con il sole che tritava il cervello. Nel tentativo di prendere una panoramica tra due crateri minori sono scivolato e mi sono sbucciato gomiti, ginocchia e mani come un dodicenne coglione. La pelle secchissima e impolverata poco si addice alla ghiaia lavica affilata e rovente di Ubehebe Crater. In un tutto grigio-chiaro-ocra il mio sangue ha veramente un che di artistico… Torno all’automobile dolorante e sanguinante e questa volta, fanculo, accendo l’aria condizionata e ritorno a Stovepipe.
Intanto qui alla Steakhouse di Furnace sono stato servito dallo stesso cameriere fröss dell’ultima volta. Indimenticabile! Gentilissimo e frocissimo. Il vino che sto bevendo mi fa venir voglia di rifare un passaggio in Napa ma comunque ho la borsa piena di Kentucky Bourbon. Questa sera dovrò dare un’occhiata al tracciato per arrivare a Frisco in tempo. La voglio fotografare in lungo e in largo e mi preparo agli acquisti rituali presso i negozi di musica a Haight Ashbury e altre stronzate varie. Frisco! Che stato d’animo questa città… San Francisco é la musica che ascolto: David Crosby, Jefferson Airplane, CSNY me la evocano immediatamente.

Ma porca trojjjaa quanti francesi ci sono in giro da queste parti. Vincono in numero su tutte le altre nazioni 10 a 1.

101

In questo momento non so bene che scrivere. Sto cercando di scavare nella memoria. Sto trivellando nel cuore del cervello in cerca di un pensiero, un’immagine, un brandello di situazione da raccontare. Ma oggi il carotaggio dell’encefalo non sta dando risultati e così non trovo la strada. Mi sono perso in qualche cunicolo di questo budello. Ci provo comunque.
Certo é che la calma e la serenità che ci ha ispirato anni fa il Pacifico rimane forse un episodio isolato, durante la lunga discesa dal Canada, percorrendo la 101. Fu come viaggiare attraverso i quadri di Hopper. Una lunga discesa condita di grandi ascolti musicali, bevute memorabili e fantastiche cene, finestroni panoramici, the “Big Wheel”, l’hamburger più grande del mondo, la ruota della fortuna per vincere uno sconto al Morlock Hotel. Fu l’anno in cui gli Smashing Pumpkins vinsero tutto quello che era possibile vincere agli MTV awards. Vedemmo i microorganismi fluorescenti, di notte in spiaggia dopo aver brindato con Sierra Nevada Pale Ale di fianco ad un “bonfire” che qualcuno aveva misteriosamente preparato solo per noi…

mp3: Barley
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I feel so REAL!

Rich Franklin é seduto a bordo ring e si guarda sul maxischermo. Gli stanno pulendo un grosso taglio sopra la tempia destra. “That’s a bad one!” dice sorridendo con gli occhi alzati allo schermo. Che eroismo e che sense of humor!

Ma adesso sto pensando, in piedi alle 5 e 30 del mattino. Nel cuore del deserto. Bisogna alzarsi presto per cogliere quest’atmosfera… Si tratta di un momento unico. Arriva tutti i giorni ma lo cogli solo alzandoti presto la mattina. Specialmente nel deserto.

L’aria ha ancora quella freschezza che la notte le ha prestato. Cerco un luogo appartato, lontano da qualsiasi sguardo. E’ abbsatanza importante essere soli, avere la mente sgombra. Respiro a pieni polmoni quest’aria profumata che scivola sopra la terra. In questo istante é chiaro il mio ruolo sulla terra. E’ uno di quei rari momenti in cui conosci il senso della tua presenza terrena. Sai di far parte del pianeta. Tutto é in armonia. La mia presenza ha un’importanza assoluta e indispensabile. Raramente colgo l’equilibrio e il significato della mia esistenza come in questi momenti. So solo che capita ogni tanto, inaspettatamente. Capita. Scruto il suolo.”Egli raccolse” deve pur significare QUALCOSA. Il mio nome ha un senso che in questo momento diventa più chiaro. Tutto ha senso adesso. Ogni granello di sabbia, io che setaccio il suolo, che do importanza ad ogni rugosità, ad ogni pietra, ad ogni mucchietto di sabbia. Alzo lentamente lo sguardo… Voglio celebrare il meraviglioso confine tra il cielo e la terra. Mi faccio portavoce della razza umana in questo istante. Voglio celebare il pianeta. Come un alieno che dopo un periglioso viaggio attraverso le galassie giunge nella meravigliosa serenità della terra incontaminata. Questa sensazione rende un’ emozione commovente, eterna. Mi rimprovero di non aver provato più spesso questo sentimento puro… Come l’arrivo su di una spiaggia dopo settimane di deriva in mare. La venerazione! La gioia. il sollievo.

Poi un tentativo altrettanto commovente di comprendere il lavoro del tempo, il segno del tempo sulla terra. Faccio una panoramica a 360 gradi sulle montagne che mi circondano. Cerco di comprendere il senso delle stratificazioni che le distinguono. Penso al mio momento di solitudine in un’eternità immobile. Io sono una virgola in questo discorso infinito. Un’ infima alterazione di questo percorso rallentato. E’ il ricordo di un tempo in cui la musica dei Counting Crows era l’unica colonna sonora della mia vita. Un tempo in cui io ero più buono. Io sono stato un essere migliore, più armonioso, più contemplativo. C’ é un un colle tra Lukeville e Why nell’ Arizona profonda. Ho raggiunto la cima di quel colle un paio di volte nella mia vita. Ho visto la terra da lassù. Un paio di volte nella mia vita ho visto la terra. Mi sono capito. Un paio di volte ho quasi capito il motivo della mia presenza. Poi, trascorsi alcuni giorni, mi sono scoperto di nuovo vulnerabile e perso nella vastità losangelina. In una solitudine lynchiana. Mentra percorrevo Mulholland Drive. L’ultima immagine che voglio ricordare oggi é quella dei delfini che si spingevano al largo dal pontile di Santa Monica. Avevo appena abbandonato il puzzo di vomito nella stanza del Travelodge di Santa Monica. La mia esistenza era ripartita da capo due sere prima. Era come se fossi rinato una seconda volta. O meglio, come se avessi perso tutto il mio passato. Pat aveva perso il suo passato. Eravamo rinati. Le nostre esistenze si erano resettate senza che ce ne accorgessimo. Erano bastate un paio di tequile e qualche paio di “titties” sventolate in faccia ed eravamo rinati. Un barbone che passava due giorni di fila giù in strada era diventato la prova vivente che le nostre esistenze avevavo preso un’altra strada. Avevamo compreso qualcosa di nuovo.

Una nuova luce si gettava sulle nostre esistenze, la luce che vedi un pomeriggio insignificante mentre stai mangiando una grigliata di carne mista in Melrose Place mentre pensi che tutto sia ricominciato in questo istante. Mentre firmi con sicurezza uno scontrino con tanto di tip per una cameriera che non conosci ma della quale credi di aver compreso tutta la disperata vita.
“Awake on my airplane, awake on my airplane” canta Richard Patrick “And I fell like a new born” ripete. “Awake on my airplane, awake on my airplane, I feel so REAL!!!!”
Così mi sento!
ORA!

Borrego

Mi ricordo che due anni fa, catturato da una specie di raptus da sovraccarico lavorativo, cercavo un po’ di sollievo viaggiando digitalmente sulle pagine di www.desertusa.com. Io ho visitato quasi tutti i parchi desertici del sud-ovest degli Stati Uniti percui cercando spunti per un viaggio futuro capitai sulla pagina dedicata all’Anza-Borrego Desert State Park, un enorme parco a est di San Diego che si estende fino alle acque del Salton Sea. Mi convinceva. Decisi di ricordarmi di questo nome.

Trascorre qualche mese e sto correndo con una Nissan Xterra lungo le strade dell’ angolo basso di California. Come sempre capita, devo assolutamente passare per luoghi che portano nomi incredibili che evocano immagini mitiche nella mia testolina: Tucson, Yuma, Calexico! Che successione! Che strada! Che Tris! Partendo da Tucson io e Eero chiaramente scegliamo di non percorrere la Interstate 10 che ci porterebbe ad ovest più speditamente ma prendiamo la Hwy. 86 che ci spara verso verso il deserto di Sonora, verso la Frontera. Qualche anno prima percorrevo la stessa strada con Pat e un paio di litri di birra in corpo mentre la radio mandava “Cherub Rock” degli Smashing Pumpkins. Porto a casa i fantastici ricordi del tramonto ad Ajo. Il lungo trail a ridosso delle Diablo Mountains nell’Organ Pipe Cactus National Monument. L’agitazione delle Border Patrols sempre a caccia di trafficanti e clandestini. Poi più avanti verso ovest le maestose dune di sabbia di Yuma. E la luce assolutamente strabigliante che ci accoglie, un tardo pomeriggio, risalendo da Calexico in direzione di Indio, nella Coachella Valley. Mi ricordo questa strada drittissima con un sole bassissimo che proietta un’ombra lunghissima della nostra auto. La radio trasmette musica da “La Rumorosa, Baja California”. Ai lati della strada giganteschi muri di balle di fieno e campi sterminati percorsi da lunghe file di spruzzatori automatici per l’irrigazione. Poi giriamo a sinistra passando a ovest del Salton Sea.


Entriamo nell Anza-Borrego Desert State Park all’inbrunire. Ci fermiamo e ci guardiamo attorno. Comincia ad essere un po’ buio per poter godere del paesaggio. La strada é deserta e davanti a noi parte perpendicolare una deviazione sterrata con un cartello che ci sconsiglia con decisione di proseguire “Absolutely no trespassing”.
Tiriamo dritto e cerchiamo con gli occhi di indovinare un luogo che si addica ad una spettacolare sessione fotografica. Dopo ogni dosso potrebbe aprirsi uno scorcio spettacolare. Trascorrono i minuti, si fa sempre più buio, non troviamo nessun panorama mozzafiato ma capitiamo a Borrego Springs, un’inquietante cittadina persa nel nulla con un enorme campo da Golf, un Country Club, un Mall e nient’altro. Ho la sensazione che ci si trovi su di un set cinematografico con le facciate delle poche case vuote che cercano di ingannarmi e di convincermi che qui ci abiti qualcuno mentre di dietro non c’é niente. C’é l’ufficio postale ma non c’é nessuno. Arriviamo in quello che potrebbe essere il centro di questa cittadina (anche se qui in America le città non hanno centro). Le aiuole sono curate, c’é una rotatoria con una bella erbetta verde e anche qui non c’é nessuno. Giriamo e torniamo indietro. Tutto mi fa pensare ad una “ghost town” ma le ghost town non hanno campi da golf. Inutile cercare un Motel. Usciamo da Borrego Spring e ci dirigiamo verso Salton City sulle sponde del Salton Sea.

La discesa é magnifica e rilassante. Le ultime luci si riversano nella valle e in fondo già si vedono le prime luci di Salton City. Cominciamo ad avere fame e siamo moderatamente stanchi. “Welcome To Salton City” ci annuncia un cartello dopo alcuni minuti. Ma le prime luci di Salton City sono anche le uniche. Girovaghiamo per il fitto retticolato di strade vuote di questa cittadina piuttosto spettrale. Ci sono le strade ma non le case.

Per cogliere lo spirito desolato di questa cittadina spettrale consiglio le magnifiche panoramiche di Will Pearson oppure il magnifico documentario Plagues & Pleasures on the Salton Sea con la fantastica musica di Friends Of Dean Martinez

Lasciamo Salton City e ci dirigiamo verso Indio. La giornata si conclude davanti ad una bistecca di 22 oz.

mp3: Borrego

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Bishop

Qualche settimana fa il mio amico Enrico scriveva che non si é mai amata veramente la musica se non ci si é immersi, un giorno o l’altro negli oramai lontani anni 80, nella preparazione di un mixtape. Non c’entra molto con ciò che sto per scrivere ma in ogni caso lo dico: non si può amare veramente la California senza aver amato le magiche armonie dei CSN. Impossibile! Credetemi! Come fai ad andare in California senza avere in testa le melodie di Wooden Ships, o le armonie di Tamalpais High? Impossibile. Per me si tratta di un esercizio impossibile. Un po’ come visitare N.Y.C. e il suo Greenwich Village senza pensare a tutto il Folk e il Jazz che li si é suonato.
Ma quante cazzo di volte sono stato a San Francisco?

mp3: Isadora Lane
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Ora siamo a Bishop e sono felice quando arrivano le chips di mais e la salsa in questa tavola calda messicana. E’ anche arrivato un sontuoso burger, enorme, traboccante di grasso. Ciò di cui ho assolutamente voglia in questo momento. Con un paio di cetrioli, qualche foglia d’insalata e due fette di pomodoro. Il tutto annaffiato da una fresca Tecate. Degli orrendi quadri adornano le pareti di questo locale in cui siamo i soli clienti. Una waitress messicana ci guarda incuriosita, sorridendo poi ci porta altra acqua. Le strade di Bishop sono tranquille in questo pomeriggio caldo. Una Harley tutta cromata passa rombando mentre io quasi imbambolato la seguo con lo sguardo per tutta la strada.

mp3: Discesa
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4:47

mp3: Gamcem
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Ora ricordo quella mattina quando ci svegliammo alle 04:47. Martedì. Con l’orologio biologico ancora stravolto dal volo fu impossibile riaddormentarsi. Avevamo attraversato l’oceano per cercare un viaggio diverso, che a grandi linee avevamo già disegnato nelle nostre intenzioni. Arrivammo nel Sud Ovest degli Stati Uniti con l’intenzione di cercare la solitudine dei deserti, di uscire dai percorsi classici. Volevamo panorami mozzafiato, distese immense, birre celebrative, whiskey celebrativi e viaggi interminabili. Stade da percorrere sotto il sole da mattina a sera.

Tutto comincia con un clamoroso inconveniente. Siamo entrambi senza bagagli. Tutto é andato perduto tra Milano, Parigi e San Francisco probabilmente a causa di un ritardo dovuto alla nebbia che ci fa perdere la coincidenza a Parigi e ci costringe a dormire una notte a Roissy. Abbiamo solo gli abiti che indossiamo e cominciano ad essere imbarazzanti. Io francamente puzzo già di merda. Pat non so, ma forse pure lui. Nel paese degli acquisti (in senso lato) arriviamo di domenica e non c’é verso di trovare un ricambio completo. Ci arrendiamo allo sporco anche se in extremis compriamo in una farmacia di San Bruno dentifricio, spazzolino, e delle orrende magliette con con la scritta “San Francisco”, destinate sicuramente ad un mercato di ottuagenari morenti.
Ieri sera camminavamo per le vie deserte di Roissy (esiste questa cittadina a lato dell’aeroporto di Parigi. Qui in USA la chiamerebbero una “living ghost town”). Vivo questa serata come una delle più surreali della mia vita. Io e Pat siamo completamente persi in un altra dimensione mentre cerchiamo quasi disperatamente dei segni tangibili di vita in questo soleggiato pomeriggio da fine del mondo. Anzi , il mondo é già terminato e come nella “Nube Purpurea” di Matthew Shiel, siamo in giro a zonzo ma non c’é nessuno. Sono tutti morti. Solo tornando in albergo riacquistiamo la percezione dell’umanità che però perdiamo di nuovo dopo cena quando ci permettiamo del Cognac sopraffino che arrotonda per bene i nostri prodigiosi cervelli messi a dura prova durante questo bizzarro pomeriggio.
Ma torniamo a Martedì. Siamo in un motel molto “cheap” a Merced, la “porta del Yosemite”. Ieri ancora un tentativo di recupero dei bagagli all’aeroporto di San Francisco andato a puttane. I miei ricompaiono, ma quelli di Pat sembrano scomparsi per sempre.”Why are you here?” ci dice una responsabile del ritiro bagagli di Air France con un inglese irrimediabilmente compromesso da uno sgradevole accento francese. “I told you not to come”. L’avevamo già dovuta sopportare il giorno prima, al nostro arrivo. “We will call you when the luggage arrives”. Decidiamo lo stesso di partire per il nostro viaggio.

E’ veramente molto presto. L’orologio digitale lampeggia: 04:47 – 04:47 – 04:47 – 04:47 – 04:48. Con una mano sollevo la tenda per vedere fuori. Le prime luci dell’alba fanno capolino. Adoro questi momenti. Un paio di pickup sono parcheggiati qua fuori. Non c’erano ieri sera quando siamo arrivati. Siamo svegli e decidiamo senza indugio di partire. Impacchettiamo la nostra roba, anzi lo faccio solo io perché Pat non ha niente con se tranne spazzolino e dentifricio. Saltiamo in auto e andiamo a cercarci un caffé e qualcosa da mangiare da un benzinaio. Ripartiamo immediatamente dopo e beviamo “on the road” come si conviene. Le strade sono ancora deserte e buie. Attraversiamo tutta Merced ed imbocchiamo la 140 che ci porterà dritti a Mariposa, verso il Yosemite Park, arrampicandoci su per la Sierra Nevada. Stiamo correndo lungo questa strada di campagna che comincia ad illuminarsi. E’ tutto giallo d’erba secca, arsa dal sole con la radio che manda “Going to California”! Non sembra vero. Vedo girare le pale delle “windpumps” che costeggiano questa magnifica strada che ci porterà sulle maestose montagne di roccia del Yosemite.
Attendo il Yosemite ma in verità non vedo l’ora di attraversare il Tioga Pass per cominciare la lunga discesa che mi farà scavalcare la Sierra per scendere verso Bishop, alle porte della Valle della Morte.

California

Direi che é finalmente giunto il momento di parlare di California. Non avrei neanche bisogno di pensarla. In fondo mi basterebbe ascoltare una qualsiasi canzone di Crosby, Stills & Nash per calarmi immediatamente nella sua atmosfera. Dai deserti del sud alle montagne della Sierra Nevada, dai boschi di sequoie alle fresche spiagge del nord, dalle colline di San Francisco alle strade vuote di Salton City. Stiamo rientrando a San Francisco da nord. Stiamo scendendo da Vallejo e tra un po’ attraverseremo il San Rafael Bridge. Il sole sta tramontando. Un serpente di luci rosse ci corre davanti. Io sto pensando che questa sera cenerò da qualche parte a Chinatown in un ristorante cinese nascosto in qualche viottolo e poi andrò a cercarmi una buona birra alla San Francisco Brewing Company in Columbus Avenue.

In questo momento le note di Old Man di Neil Young stanno dando un senso alle immagini che scorrono davanti ai miei occhi. Vedo passare veloci, autorimesse, recinti, verande, case basse, edifici commerciali, palme, cani randagi, auto sgangherate e barboni. Tutto colorato di arancione dal sole basso. Le colline sono bruciate, non c’é il verde. Un senso di pace totale mi avvolge. Mi sento parte del paesaggio.
Entriamo a San Francisco seguendo la 101 fino alla svolta in Van Ness Ave. che percorriamo fino all’incrocio con Bush St. che ci conduce in centro. Troviamo una pensione che fa al caso nostro. Scarichiamo felici le nostre borse e percorriamo i corridoi ricoperti da uno spesso tappeto dall’inequivocabile puzzo di merda sotto il quale scricchiola il pavimento di legno. La camera, dal sapore antico, é stata imbiancata di recente. Un folto gruppo di bonzi tibetani cammina veloce ma a passi brevissimi. Forse non toccano nemmeno terra. Scendiamo in strada e prendiamo la direzione di North Beach. Benediciamo barboni e puttane prima di alleggerire le nostre menti con un buon Bourbon. Il cielo é ora coperto dalla solita nebbia bassa che sale fredda dal Pacifico. Le luci della città la colorano di arancione. Cerco di capire se i sigari che mi sta vendendo un tizio, siano veramente cubani come lui pretende. Li sto già gustando con gli occhi. Quasi non mi importa che siano buoni. Più tardi saranno indispensabili quando sarà notte fonda e io sarò appoggiato alle sponde di legno di qualche pontile, giù alla baia, cercando di stare in piedi, inspirando a pieni polmoni l’aria salmastra dell’oceano. Scruterò le luci dall’altra parte della baia, Sausalito, Richmond, Berkeley.Abbiamo cenato in un piccolo e luminosissimo ristorante a China Town e ora di fianco a me un pescatore di granchi cinese getta le sue nasse nel buio sotto il pontile. Dal molo 39 arrivano i discorsi ingarbugliati dei “sea lions”. Sorrido con le palpebre semi-chiuse e tiro una sontuosa boccata di sigaro pseudo-cubano. Butto fuori il fumo che tento di seguire in aria mentre si perde salendo. Penso all’odore dell’aria. “Ma ha un altro odore l’aria da queste parti?” Mi voglio godere questo istante insignificante. Mi concentro e mi dico che dovrò ricordarmi per tutta la vita che questo momento merita di essere ricordato. Non sta accadendo niente e dunque voglio che questo istante, altrimenti destinato all’oblio, mi regali una manciata di ricordi in più. Penso a domani mattina. Penso al VIAGGIO.
Rientriamo barcollanti alla nostra pensione. Per strada incontro un bel ventaglio di umanità diseredata e senza volerlo il mio sguardo passa dalle persone sdraiate al bordo della strada ai rifiuti buttati negli angoli, incrostati nelle pieghe della strada, accatastati nei viottoli.

Adesso si dorme. Domani si vedrà…

mp3: Burn The Book
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