Midwest e oltre

Bene, dopo un milione d’anni scrivo qualche nuova riga e questo é bene.

L’altra sera stavo sfogliando una delle mie “letture” preferite di sempre: il Road Atlas – US, Canada, Mexico, edizione 2017. Nel frattempo ripercorrevo a mente le strade delle mie innumerevoli scorribande negli angoli più remoti del nord America. Viaggiando mi é sempre piaciuto celebrare i passaggi di confine e ho preso l’abitudine di fotografare i cartelli di benvenuto ogni volta che mi é capitato di attraversare i confini di stato.

Intanto mi sta frullando in testa da un paio di giorni questa fantastica canzone dall’ultimo album di Chris Thile, il virtuosissimo mandolinista dei Punch Brothers. Questo pezzo si colloca a mio avviso quasi lassù in cima assieme a New York State of Mind di Billy Joel.

Capozzi in NYC

Me lo ricordo benissimo il giro che abbiamo fatto a New York col Capozzi, siamo partiti dall’undicesima avenue, o giù di lì, veramente in fondo, quasi riversi nell’Hudson River, faceva freddo, soffiava un vento forte e il cielo era grigio. Stavamo non lontano da dove domenica a mezzogiorno ci eravamo fatti una sontuosa Porterhouse con ottimo vino, deliziose birre prima e blody Mary ancora prima. Si partiva su questo furgone grigio con guida dapprima piuttosto prudente da parte di Michele e vieppiù sempre più spavalda. Su in alto, di mattina, per cercare una tavola calda ad Harlem, Sylvia’s su Malcolm X Boulevard, luogo assai storico e vera cucina famigliare. Poi moschea con palazzo annesso costruito un po’ di fianco e un po’ sopra. Sosta alla Columbus University con gente sapiente che corre pensierosa e freddo. Ricordo una sosta presso una casa vecchissima in cima ad una collina.

In un qualche imprecisato momento ci siamo diretti più a nord. Il Bronx risveglia solo pensieri memorabili, confusi, trame di film, sequenze cinematografiche, dispacci d’agenzia, morti e guerre tra bande, Bob De Niro e tanta altra bella roba. Arthur Avenue con le sue botteghe italiane in un abbacinante caos di mozzarelle sospese, salsicce, birra Peroni e un ottimo caffe da Ignazio, in un club insospettabile, nascosto dietro un’anonima porta che si apre in una traversa buia di Arthur Av. Foto di italianità alle pareti, il gagliardetto del FC Corleone attira la mia attenzione. Poi siamo tutti leggerissimi mentre ci incamminiamo verso il furgone prima di decidere dove andare a mangiare. C’é anche un ricordo fumoso e un po’ blurrato che ci vede tutti da Katz’s Delicatessen a iungurgitare chilate di pastrami. Forse era la sera della festa di compleanno di Mark, dopo aver assaggiato all’incirca 25 birre differenti da Ginger Man.

Scaffale degli orrori presso Gustiamo con amica di Capozzi. Per cena mi ricordo un Diner con un nome mitologico, tipo Poseidon (Neptune Diner), ad Astoria, sotto un viadotto a pochi passi da pozze di acqua morta circondate da cespugli sofferenti senza foglie e sacchetti di plastica stesi tra i rami come bandiere. Doppio Cheesburger Deluxe con potatoes e cetriolo. Poi forse rientro in albergo a Chelsea. La mattina dopo un caffé al volo a Brooklyn poi attraversiamo Williamsburg con le sue scuole talmudiche e ortodossia ebraica ovunque. Graffiti anti-Hillary Clinton sul marciapiedi, si passa accanto alla birreria Brooklyn Brewery ma non ci si ferma. Ci si dirige verso Brighton Beach, sulla penisola di Coney Island. Piscio in un bagno pubblico amplissimo sulla boardwalk. Vento sempre più insopportabile mentre camminiamo lungo la spiaggia totalmente deserta. L’acqua dell’atlantico è gelida quassù a New York.

Entriamo da Volna, un ristorante russo che si affaccia sulla boardwalk. A guardarlo dalla spiaggia è uguale identico ad un quadro di Hopper questo pomeriggio luminoso e deserto a Coney Island, con il vento che solleva la sabbia, i gabbiani che fanno casino e null’altro in giro. Pomodori, cetrioli e cavolo in salamoia, aringhe affumicate, beef stroganov, borsh georgiano, birra e vodka. La testa si fa pesante. Al rientro, prima di attraverssare Brighton Beach, un’ambulanza ebraica ci blocca la strada. Passiamo accanto al Verrazano Bridge, pian piano il sole scende e la sera si fa colorata. Cerco di fotografare maestose strutture metalliche dal furgone in piena corsa mentre ci dirigiamo verso Roosvelt Island, nel bel mezzo dell’East River. Qui un altro piscio tattico mentre scatto foto al Queensboro Bridge da sotto. La sera prima nel Village trascorriamo dei momenti epici dapprima da Mezzrow, scolandoci bourbon e asoltando un discreto trio chitarra, double bass e sax, poi usciamo, attraversiamo la strada e ci infiliamo di sotto da Smalls. In questa cantina tutta affollata David Gibson da fiato al suo trombone, Pat ha appena raccattato in strada un chiodo Cartier d’oro massiccio. Le panche in questo jazz club sono tutte occupate e Gibson é veramente cool mentre suona Inner Agent

 

Post interrotto

L’anno passato  stavo scrivendo questo post interrotto che mi portava indietro con i pensieri all’ultimo viaggio in America del nord. Oggi lo riprendo perché in USA ancora non ci sono ritornato ma ho finalmente avuto l’occasione giusta per ripensarci. Giacevano infatti inermi in un hard disk dimenticato le clip filmate durante quell’ultima scorribanda.

inizio della bozza

Esattamente un anno fa partivo per uno dei miei classici giri nordamericani seguendo dei percorsi già noti che però mi procurano sempre forti emozioni. Quando sono alla guida di un automobile sulle stade americane sono sempre in uno stato di serenità unica. Esistono solo quelle due o tre settimane, non c’è più passato o futuro, esiste solo un incredibile presente fatto di lunghissime e spettacolari giornate di viaggio, all’inseguimento del sole, alla ricerca della foto perfetta. Le cene sono sempre un momento speciale. La scelta della tavola calda è essenziale.

fine della bozza

Naret e silenzio

Ok, mi  sono finalmente deciso, adesso posto!

Naret-e-Corona-della-Bolla
Era ora che tornassi a scrivere ma avevo bisogno dello stimolo giusto. Dopo aver trascorso la tarda mattina in Val Sabbia e aver pranzato alle pendici del Madone, in questo momento sono seduto su un masso di granito sul Sasso Nero, a 2406 metri per essere precisi. Alla mia sinistra si apre tutto soleggiato il lago del Naret, davanti a me, giù in basso, l’ultimo colpo di coda della Valle di Peccia con sopra la magnifica cresta della Corona della Bolla. Alla mia destra uno dei sentieri che portano alla capanna del Cristallina – spero di andarci presto – quasi in bilico su uno sperone roccioso che apre sulla Val Torta.

Capanna-Cristallina

Forse questo è il primo momento di vero silenzio sperimentato negli ultimi anni. Sento solo il mio cervello che lavora – fa rumore in effetti –  come i tralicci della corrente elettrica che qui attraversano tutta la valle, salgono su dalla Vallemaggia e si ributtano in Val Bedretto. Le marmotte fischiano mentre le nuvole passano veloci. Poco fa ho udito in lontananza un gran fragore di massi che precipitavano lontano in basso alla mia sinistra. Un rumore simile lo udii in Islanda qualche anno fa quando ai margini del Vatnajökull sentivo pezzi di ghiacciaio che si frantumavano. Un rumore sordo e pesante che mi mette i sensi in stato di allerta. Sono le 16 e adesso è meglio che cominci a scendere.

Stambecco

Nipponica

Ricordi stropicciati di una settimana trascorsa in Giappone.

Parte I

Il viaggio in aereo dall’Italia al Giappone é veramente un po’ troppo lungo per i miei gusti ma é reso più sopportabile dalla Economy Premium di Alitalia che mi offre almeno 20 centimetri in più rispetto all’Economy, di vitale importanza per le mie ginocchia. Inoltre gli schienali non sono reclinabili e così si evitano monumentali rotture di scatole. Grazie ai centimetri in più é tutto il sedile che slitta verso il basso come su uno scivolo e ti permette di stare leggermente più orizzontale senza rompere le palle a nessuno.

Alla stazione ferroviaria dell’aeroporto Narita riscuotiamo il JR Pass che tornerà utilissimo sull’arco della settimana.

Portiamo i nostri bagagli all’albergo nel quartiere Chūō, a pochi passi dalle fermate del metro Bakurocho e Kodenmacho. Le stanze sono veramente microscopiche – 10 m² incluso un modulo prefabbricato contenente gabinetto e doccia – ma siamo felici di prenderne possesso. Ricordo una visita al quartiere di Asakusa con una tappa obbligatoria al tempio Sensō-ji, attraversando il Kaminarimon, la porta d’ingresso al viale che conduce al tempio. DSC_0435Noto subito le svastiche dorate che adornano le arcate che sorreggono il tetto. Camminiamo attraverso una folta folla impastata di turisti e devoti. Il cielo é grigio-coperto, le botteghe lungo il viale vendono dolci tradizionali, ombrelli di bambu e carta, souvenir assortiti e schede telefoniche. Giunge anche il magico momento del primo pasto tokyoide. Ci infiliamo dentro al ristorante Sansada, proprio di fianco al Kaminarimon e stiamo abbastanza leggeri con un piatto misto ottimo ma abbastanza caro. Qui vige l’usanza di mettersi a tavola scalzi e il tavolo é veramente bassissimo per noi che sembriamo i LA Lakers. Per stare seduto a tavola assumo una posizione assolutamente innaturale che nel giro di 15 minuti mi procura un bel assortimento di crampi bilaterali.

Usciti dal ristorante godiamo di un ottima veduta aerea dalla cima di un palazzo.

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20150406_21221120150404_192050Ho poi vaghi ricordi di una passeggiata un po’ onirica – forse irrompeva la stanchezza da jet lag – lungo una via abbastanza deserta con negozi di articoli da cucina su entrambi i lati. Era forse l’ora della chiusura, cominciavo ad avere allucinazioni da spossatezza, ma il ricordo che ho é quello di un passaggio esteticamente raffinato, anche tra gli scaffali stracolmi di vasellame, caraffette da sake, servizi da tè e spettacolari vetrine di sampuru (da sample), cioé i piatti in plastica o ceramica che riproducono in modo estremamente realistico le pietanze servite nei ristoranti.

Poi in metro raggiungiamo Ueno e cominciamo a percorrere delle affollatissime strade popolari che seguono la linea ferroviaria sopraelevata. Gli spazi al di sotto dei binari sono tutti occupati da negozi e ristoranti. Questo é il clima che mi piace. Lentamente cominciamo a percepire un’atmosfera vagamente bladerunneriana. Ci sediamo all’esterno di un primo locale e ordiniamo subito 4 birre e un po’ di spiedini alla griglia con un po’ di contorno. Al tavolo di fianco al nostro esigono un brindisi con noi. Ci si saluta e si brinda senza che si sia in grado di comprendere una sola parola delle nostre conversazioni incrociate. Loro solo in giapponese noi solo in italiano con un po’ di inglese.  Tutto perfetto direi. Fa abbastanza fresco questa sera e siamo tutti coperti e incappucciati. Al termine di questo spuntino frugale andiamo a cercarci un altro posto.

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Pat intercetta un locale dall’aspetto accogliente e ci precipitiamo dentro. Traditional IZAKAYA house Bi Bi Bi di Akira Tanaka. Questo locale celebra il nostro incontro ufficiale con il sake. L’oste generosissimo, ce lo serve facendolo trabboccare in queste fantastiche scatolette di legno che fungono da sottobicchiere. Accompagnamo questa epica bevuta con pinne secche di pesce e risate. Prima di uscire l’oste ci omaggia con uno spuntino che ci servirà per trovare la strada del ritorno.

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Partiamo alla ricerca di un posto in cui cenare. Qui sotto la sopraelevata si sta maledettamente bene. C’é tutto un mondo laborioso di piccoli businness, un fiume di gente che va e viene, caos urbano, cibo, vetrine fluorescenti, scatole ammucchiate, insegne luminose, il treno che passa, gran baccano, gente che urla, che si urta, folate di cibo cotto, fritto, che ancora sfrigola sui fornelli, fumo, noi avanziamo senza meta, alla ricerca di stimoli. Scoviamo infine questo locale in cui si servono dei ramen abbasanza leggendari e ci mettiamo in coda. Si ordina tutto ad una biglietteria automatica che sembra una slot machine. Attendiamo una decina di minuti prima di poterci sedere – é difficile ottenere una combinazione di 4 posti liberi al bancone di questo stretto locale – ma infine arriva anche il nostro turno. E’ animalesca la voracità con la quale affronto questa scodella di ramen guarniti con maiale affettato e un uovo marrone con il tuorlo quasi trasparente che avrà certamente subito un sapiente metodo di cottura  a me totalmente sconosciuto. Impariamo presto che per mangiare dei ramen bollenti bisogna produrre un suono di risucchio direttamente proporzionale alla temperatura della pasta che si ingerisce. Dopo aver cenato o forse anche prima mi ricordo di essere entrato qualche minuto all’interno di una sala in cui si gioca a Pachinko, il flipper nipponico senza destrezza necessaria. Tutti stanno ipnotizzati davanti alla propria macchina mentre le palline scendono a cascata in un inferno caleidoscopico di luci al neon e rumore industriale.

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La mattina seguente ci riserva la pioggia. E pensare che eravamo venuti in Giappone per ammirare i ciliegi in fiore. E allora andiamo a vederli ugualmente, al parco. Questa pioggia e le temperature non proprio primaverili devono aver rovinato le vacanze a molti giapponesi che a quanto pare si spostano a milioni per assistere al fenomeno della fioritura nei parchi delle più importanti città del Giappone. In effetti li vediamo accamparsi sotto agli alberi, a fare il picnic sotto la pioggia, togliendosi le scarpe, coprendo i piatti con la plastica. Una tristezza…

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Visitiamo il distretto di Akihabara, la città elettrica. Mandrake, uno store multipiano, soddisfa appieno la nostra curiosità in merito ai manga. In altri negozi rimaniamo abbastanza di stucco. Ci sono delle action figures che non ho mai visto nei negozi di giocattoli dalle nostre parti. A mezzogiorno ci infiliamo in un ristorante stretto ma su due piani. Da una ventola sul soffitto scendono ventate di aria caldissima. Scegliamo ancora ramen. Di fuori piove e fa freddo e abbiamo dunque bisogno di qualcosa di caldo. Completiamo la reidratazione con una bella birra.

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Nel pomeriggio ci spostiamo a Shibuya giusto per dare un’occhiata ad uno degli incroci più affollati della terra. Le immagini della gente che lo attraversa contemporaneamente, dai quattro lati della strada e in diagonale, sono famose in tutto il mondo. Ci infiliamo poi in un grande magazzino a pochi passi dall’incrocio. Shibuya 109, the Tokyo’s fashion hotspot for young Japanese women. Qui dentro mi sento veramente fuori luogo. Usciamo poco dopo e ci dirigiamo a Roppongi. Di questa prima parte di pomeriggio ricordo una birra bevuta in una laterale di quella che sembra la Fifth Ave. in versione giapponese. In questa occasione torna utilissimo il mio kit ellettrogeno per ridare succo ai cellulari a secco di energia. Poi entriamo nel suggestivo Gonpachi. Pare che questo ristorante abbia ispirato il design della sala del gran duello finale di Kill Bill. Tutto un po’ tourist trap ma c’é una bella atmosfera e finalmente riesco a bere un Highball drink che va tanto di moda qui in oriente. Si mangia anche un po’ di sashimi ma non é sicuramente abbastanza. Usciamo con l’intenzione di trovare uno di quei bei sushi bar con il bancone che gira tutto attorno ai cuochi che tagliano, sfilettano e assemblano piccole meraviglie di riso e pesce. Troviamo un locale con queste caratteristiche, sembra perfetto. Ci sono quattro giapponesi e altri 4 posti liberi fatti apposta per noi. L’unico inconveniente sta nel fatto che il menu é scritto esclusivamente in giapponese, non ci sono immagini e i cuochi non parlano una parola di inglese. Non una! Ma a noi non importa, abbiamo una tecnica infallibile che sicuramente ci procurerà tante soddisfazioni. Ognuno di noi sceglierà alla cieca e ordinerà per quattro. Infallibile, no? Sbirciando nel piatto degli altri clienti vediamo cose meravigliose e dunque siamo certi che questa carta giapponese che abbiamo davanti agli occhi non può che riservarci godimento. Deve per forza essere una lista di prelibatezze ittico-nipponiche. Lo spirito culinario di un intera nazione racchiuso in una paginetta plastificata tutta decorata di belle iscrizioni ideografiche.

Comincio io. Scorro con il dito questa lista indecifrabile alla ricerca di chissà che cosa. Prendo tempo come se da un momento all’altro potessi avere un’illuminazione confuciana e comprendessi il significato di una di queste linee: “Ah, ma certo, questo é un nigiri e quello un Ikura gunkan maki sushi. Come no! Temporeggio ancora un poco per vedere se qualche porzione di giapponese stampato può in qualche modo assomigliare all’italiano. Non credo! Alla fine mi butto e scelgo. C’era questa serie di caratteri che a mio avviso era esteticamente più apprezzabile di altre, come se si trattasse di un qualche tipo di sushi roll. Il mio intuito infallibile avrà sicuramente scelto bene. Lo percepisco. Mi giro verso gli altri e dico “Scelto!” Richiamo l’attenzione di un cuoco e gli indico col dito la mia scelta sulla carta e poi gli mostro 4 dita per fargli capire che non ne basta uno, eh no, troppo poco – ma hai visto come siamo grandi? – ce ne vogliono quattro porzioni, una a testa. Caro il mio cuoco, questa sera ti svuotiamo il ristorante, ti finiamo le provviste. Domani dovrai fare la spesa grande! Il cuoco mi guarda stupito poi si gira verso il suo collega e gli indica quello che ho ordinato. Sembrano perplessi.

Accidenti! Questa reazione non promette bene. Devo aver toppato alla grande.  Riusciamo però ad ordinare un paio di caraffette di sake che rendono l’attesa più tranquilla.

Giungono infine in tavola quattro piattini con con 2 bacelli di fave bollite a testa. Non ho quasi niente da dire. Buone le fave, per carità… Ma ci eravamo immaginati altro. Anche gli altri clienti, con ancora tra le bacchette morbidissimi tranci di toro sashimi, guardano perplessi mentre apriamo i bacelli. “Ma che buoni i bacelli! Ah… signori! Questi bacelli sono veramente ottimi. Degli ottimi esemplari di bacello di fava”. Vabbé, se alla prima non ci é andata bene, andrà bene la seconda. Sceglie Eero ora. La tecnica é sempre la stessa. Si punta il dito sul menu e si ordina X 4. Vediamo come va a finire questa volta. Capiamo subito che anche questa seconda scelta non rientra nella normalità perché il cuoco non ha proprio idea di come si prepari questa cosa. Comincia la consultazione tra i due cuochi. Quello più esperto cerca di spiegare all’altro come si prepara quello che abbiamo ordinato e noi capiamo purtroppo di aver toppato una seconda volta. Ma com’é possibile? Ma cosa abbiamo ordinato questa volta? O si tratta di un piatto talmente prestigioso che solo il sushi chef ha il diritto e la competenza per prepararlo oppure abbiamo scelto qualcosa che nessuno di solito ordina, dunque una merda.

Arrivano quattro ciotoline con della roba viscida di chiara origine animale tutta ricoperta di salsa agrodolce che mi ricorda vagamente una specie di senape. Non abbiamo idea di cosa sia. Cerchiamo di chiedere al cuoco ma é un impresa che non può avere successo, anzi, i due cuochi ricominciano a consultarsi intensamente. “Non fa niente, va bene così. Arigato gozaimas“. Anche in questo caso non é esattamente quello che ci aspettavamo. Ora arriva il turno di Pat e inanelliamo la terza sconfitta di fila con un ordine dall’apparenza e consistenza sconcertanti. Sia ben chiaro che io sono in grado di mangiare qualsiasi cosa, meccanicamente parlando riesco ad inghiottire qualsiasi cibo e dunque questo strano salsicciotto verde biancastro che il cuoco taglia a fettine di un paio di millimetri di spessore va giù in ogni caso e senza esitazione, nonostante la consistenza dura, gommosa e non particolarmente saporita. Al quarto tentativo forse riusciamo ad assaggiare un po’ di pesce ma non ricordo bene. Uscendo da questo locale il bilancio é chiaramente negativo e si rende dunque necessaria la ricerca di un altro ristorante. Entriamo in un locale dall’atmosfera un po’ lounge, scalzi, con luci soffuse, pavimenti in legno e tavoli ad altezza caviglia. Qui finalmente mangiamo cibo riconoscibile dalla carta del menu e beviamo ancora dell’ottimo sake. Verso l’una del mattino camminiamo nella notte arancione scuro, siamo avvolti nel velluto porpora e scivoliamo tra i palazzi, attraversiamo gli incroci, siamo leggeri, infaticabili e spensierati. Troviamo poi un whisky bar con staff abbastanda cordiale ma non fino al punto da farci lo sconto per un Macallan del ’70 che avrei veramente voluto assaggiare ma al quale ho rinunciato. Sta al secondo piano di una piccola palazzina. L’atmosfera é un po’ lynch-kubrickiana, tutto scuro qua dentro e curiosi personaggi al bancone che fumano robustos mentre Mr. Grady lucida i bicchieri.

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Lunedì mattina splende il sole sul Giappone. Questa é la giornata che aspettavo con impazienza fin dalla partenza. Oggi é in programma la visita a Tsukiji, il più grande mercato del pesce al mondo. Mi alzo con un anomalo giramento di testa. Le cose si complicano in metropolitana durante l’ora di punta. Devo uscire all’aria aperta in fretta altrimenti vomito. Facciamo qualche isolato a piedi poi gli altri continuano in taxi mentre io cerco di riprendermi un po’. Arrivo nei pressi di un parco e mi devo mettere a sedere un attimo. Ma non mi può capitare sta roba proprio oggi. Dopo una quidicina di minuti arrivo al mercato e lentamente comincia la mia guarigione. Mi ci butto dentro, in questo quartiere-mercato estremamente caotico ma fondamentalmente tranquillo. Devi avere gli occhi tutt’intorno alla testa perché arrivano potenziali pericoli da ogni direzione. I mercanti girano a bordo di carretti elettrici con un grosso volante davanti e sfrecciano tra le strette viuzze di questo enorme mercato coperto. Giro in un frenetico stato di sbalordimento cercando di cogliere con la mia macchina fotografica quante più immagini possibili. Voglio cogliere l’essenza di questo luogo. Si vende praticamente tutto ciò che il mare può offrire di commestibile: ogni tipo di pesce, mollusco e crostaceo. Degli sciabolatori samurai tagliano tonni interi con un armamentario spettacolare di coltelli di ogni dimensione. Sangue, teste di tonno, pinne dorsali, conchiglie, polistirolo, acqua ovunque, cubi di ghiaccio, biciclette, legno e ferro. Al termine della visita riesco a ricongiungermi con il gruppo. Facciamo visita alle bancarelle che si trovano al di fuori dell’area coperta del mercato dove compero fish jerky in grande quantità oltre a dell’ ottimo tè e una bella teiera.

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DSC_0509Nel primo pomeriggio rendiamo visita al palazzo dell’imperatore. Il parco che lo circonda é gigantesco. C’é il fossato con l’acqua, come per ogni castello che si rispetti. Tutte le aree del parco danno l’impressione di essere sottoposte ad un rigido protocollo di sicurezza e se un turista si azzarda solo a mettere il piede oltre una qualsiasi barriera, catenella di delimitazione, partono subito i fischietti incazzati delle guardie, anche da centinaia di metri di distanza. E’ comunque tutto chiuso, non si può entrare da nessuna parte, si può solo fare il giro seguendo il perimetro del parco lanciando qualche occhiata teleobiettiva all’interno. Ci rompiamo presto le palle e ci dirigiamo verso la bella stazione dei treni per fare le prenotazioni del Shinkansen che domani ci porterà a Osaka, 500 km a sud ovest di Tokyo.

DSC_0522Ricordo che in seguito si rende necessaria una pausa per il pranzo. Mangiamo degli ottimi Udon serviti in delle enormi zuppiere in uno degli innumerevoli ristoranti all’interno di un grattacielo nei pressi della stazione. In serata facciamo sosta dapprima in un pub che serve dell’ottimo Hakushu Single Malt ad un ottimo prezzo poi in un bel bar in cui dietro al bancone c’é anche una bella griglia fumosa sulla quale stanno cuocendo un sacco di ottimi spiedini per accompagnare la birra o il sake, come facciamo noi.

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L’indomani partiamo infine per Osaka, di prima mattina. Alla stazione di Tokyo ammiriamo la linea stupefacente dei treni Shinkansen e anche l’efficienza delle squadre di pulizia – le donne tutte vestite di rosa – che prima che i treni partano ripuliscono meticolosamente ogni carrozza. Arriviamo ad Osaka dopo tre ore di viaggio. Portiamo le borse all’albergo ed é già tempo di ripartire. A 15 minuti di treno da Osaka si trova una cittadina con un nome che non può lasciare indifferenti gli appassionati di whisky: Yamazaki! La culla del whisky giapponese. Accanto all’impressionante whisky library ci regaliamo una spettacolare degustazione dei prodotti della casa.

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Per le strade di San Francisco

Il primo pezzo di carta che trova posto nelle mie tasce ogni volta che arrivo a San Francisco é sempre lo stesso. Poi con il passare delle ore si spiegazza, si lacera e spesso si distrugge.
In verità potrebbe anche non servire, conosco la città abbastanza bene. Ma quando non ti ricordi se Post St. viene prima o dopo Sutter St. o se per andare a Haight Ashbury col Muni devi scendere a Duboce Park oppure a Cole St. questa mappa diventa irrinunciabile come una pizza da Escape from NY e una visita ad Amoeba Records.

San-Fran

The Last Supper

Ok, la mattina di quest’ ultima giornata piena qui a San Fran comincia con l’ acquisto di un paio di nuove bottiglie di whiskey americano. High West, un blended rye whiskey di Park City, UT di cui si parla tanto bene anche se qualche titubanza mi ha sempre un po’ frenato dal momento che la gran parte del blended che loro producono viene da un’ altra distilleria.
Poi una micro-bottiglia (si, ancora più piccola del Manhattan Baby Bourbon) di Kings County Distillery, Brooklyn, NY.
Intanto ho appena terminato un gratificante Mushroom Swiss Burger, il primo burger che mangio da quando sono artivato in USA, incredibile.

Ora sono le sette e mezza e sto in un pub con una Sierra e mi sento fottutamente bene. Mi mancheranno questi momenti, cristo. Sto guardando Bull Riding sullo schermo di questo fantastico bar. Potrei trascorrere così il resto della mia vita, dico ora, mentre mando giù la seconda Sierra. Poi stasera avrò sicuramente bisogno di una degna steak house per decretare la fine del mio trip in modo solenne. Intanto “Californication” dei Red Hot in sottofondo. Appropriata direi. Chiude bene. Ora steely Dan, io sono un po’ rotondo e non potrebbe andare meglio “back, Jack, do it again” canta Donald Fagen e io mando giù una gratificante sorsata di Sierra pensando alla steak.

I tori sono animali mostruosi, fanno veramente una fottuta paura, sono enormi, mille chili di muscoli e incazzatura.

Dunque questa sera avrei voluto terminare con una bella steak. Mi sono cercato un posto in California st. Dopo la punuale camminata interminabile, e dopo aver appurato che una bistecca da 22 oz. costava 57 $, sono andato a cercarmi un altro posto. Ecchecazzo, è una steicaus, perdindirindina, non una stella Michelin. Mi sono ritrovato a girovagare al calare delle tenebre alla ricerca spasmodica di un posto in cui mangiare. Ho finalmente messo piede in un ristorante tailandese. Vediamo. Voglio solo ricordare che oggi ho camminato senza sosta per quasi 6 ore. E quando dico senza sosta non scherzo. Intendo dire che non mi sono mai fermato, se non per scattare una foto o filmare qualcosa.

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Puttana, ma quanto è stata soddisfaciente questa cena tailandese? Non potevo desiderare di meglio. Una zuppa caldissima e deliziosa che mi ha riscaldato bene il ventre e poi un altro piatto dal nome impossibile da ricordare ma a base di mare, con gamberi, conchigliame, pesce e verdurame assai speziato. Tutto servito su uno di quei piatti, tipo ghisa, appoggiati su un vassoio di legno, che mantengono la temperatura per ore o addirittura settimane. Così si fa, diamine, se si serve una pietanza calda tutto deve essere finalizzato alla consumazione di un piatto caldo da parte del cliente.
Anche se non ha nulla a che vedere con la cucina tailandese ho terminato la cena con un bicchiere di cabernet sauvignon che adesso sta chiudendo alla perfezione qui tra Sutter e Jones.

Full immersion a pancia tesa

Prima giornata integrale di SF. Finalmente è spuntato il sole nel senso che la nebbia pacifica si è diradata e adesso tutto si sta scaldando un po’. Ieri sera faceva veramente troppo freddo per una giornata di luglio.

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Ho consumato un’abbondante cena cinese ieri sera, con una gran bella verdurata di pack choi e del manzo alla mongola, tutto accompagnato da del benefico tè al gelsomino. Unico problema è il fatto che per ritornare in Geary, dove alloggio, ho dovuto esporre il mio ventre tumido alle sferzate del vento dell’oceano, potenziate dalle file di costruzioni che come veri e propri tunnel del vento convogliavano tutto il gelo sulla mia pancia tesa, che seppur protetta da un sempre più spesso strato di lardo di Certara, non poteva custodire e proteggere il delicato processo di digestione che aveva luogo all’interno.
Oggi ho un antipatico mal di pancia ma spero che tutto si fermi li. Ho intenzione di scattare l’inverosimile oggi. La luce è quella giusta. Devo anche trovare una felpa.

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Ho finalmente fatto tappa da Escape from NY in Haight st. e mi sono sparato due slices monumentali, cheese and pepperoni (salame in verità) mentre ora sono al bancone del Magnolia e mi guarisco con una deliziosa e speziatissima Prescription Pale. magnoliaMi sta veramente rimettendo in sesto. Dovrebbero prescriverla i medici e le Assicurazioni Malattia dovrebbero coprirne i costi. Cazzarola come sto meglio mentre Nancy Sinatra canta “This Boots Are Made For Walking”.

Mamma mia che camminata che ho fatto oggi. Da Haight-Ashbury fino in centro e poi su e giù per le colline a visitare la Coit Tower, il Pier 39 con pochissimi sea lions, non sarà stagione, e ora a riposare in un pub con una Anchor Steam davanti. Eh ma se ci fosse un posto come questo a Lugano io ci passerei tutte le serate dopo il lavoro.

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Seconda serata sanfransischese e seconda cena. Questa volta giapponese. In apertura chicken tempura e poi sushi combo. In questo momento riesco a bere solo tè caldo. La mia pancia non si è ancora veramente ripresa e anche se ho una gran fame spero solo di non vomitare tutto sul tavolo. Sono tornato in albergo alle 19 e ho fatto un bagno terapeutico per scaldare la pancia. Questa serata è per fortuna meno gelida di quella di ieri e maglietta e camicia a maniche lunghe dovrebbero bastare.
Mega-mangiata anche stasera! Però a guardare i cuochi, uno di loro é sicuramente messicano.
Anzi mo che li guardo bene mi sembrano tutti messicani. Parlano in spagnolo. Forse uno ha chiamato l’altro Pedro…
Ma un giapponese del sud assomiglia magari un po’ a un messicano? Oppure, ci sono dei messicani che sembrano un po’ giapponesi? Questo si, dai. Un paio di camerieri sono però sicuramente orientali. Ho comunque mangiato bene e questa è l’unica cosa che conta anche se la miso soup sembrava molto un minestrone.

101 South a tutta birra

Ohhhh, sollievo! Ho anticipato di un giorno la consegna della Jeep e sono dunque sceso a San Francisco molto velocemente. Oregon e costa sono belle iniziative ma in fondo mi importa sega. Io vengo in questo paese per il deserto, dunque California, Nevada, Arizona, New Mexico e Utah e per alcune città imperdibili. San Francisco è una di queste. Mi sto già immergendo nel mood giusto qui alle sette di sera mentre mando giù una deliziosa Anchor Steam al Vesuvio in Columbus Ave.

Questo locale è bellissimo: ampia balconata in legno, luce soffusa, un sacco di roba appesa ai muri, vecchi articoli di giornale, quadri, enormi specchi, Led Zeppelin in sottofondo, lampadari liberty con vetri colorati.

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Questa sera si mangia cinese. Ho addocchiato un paio di locali in una laterale di Kearny st. tra luridi vicoli nascosti e vecchissimi cinesi mendicanti in Jackson st. Ci manca solo Snake (Jena) Plissken!
Ah che figata dentro questo ristorante! Mi sembra di essere tornato a Beijing. Parlano tutti cinese qui attorno a me e mi tornano in mente le cene interminabili in Dongzhimen a nord est della città proibita, allora si trattava della cucina dello Sichuan con il suo abbondantissimo uso del peperoncino.

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Domani sono d’obbligo un paio di slices di pizza da Escape from New York a Haight-Ashbury.