NYC – ricordi

Già stanco morto alle 7 del mattino all’aeroporto di Zurigo Kloten in attesa del mio imbarco. La campagna zurighese era avvolta dalla nebbia questa mattina. Mi sono svegliato alle tre del mattino e sono partito da casa alle quattro meno venti.

Il team, oltre a me, comprende Ilario e Ivan, ai quali farò un po’ da guida turistica.

Il volo da Zurigo a Monaco é stato una sciocchezza, 15/20 minuti. Prima del boarding a Monaco devo assolutamente procurarmi della sana birra tedesca. In un chioschetto vicino all’imbarco per NY ci sono delle ammiccanti lattine di birra che mi stuzzicano. Me ne prendo una da mezzo litro  con una confezione di Kinder Ferrero giganti. Chiedo alla cassiera se devo berla li sul posto o se posso portarmela con me in aereo (mi faccio dei problemi da solo pensando che possa essere pericolosa nel senso che magari un malintenzionato sarebbe in grado di confezionare un’arma aprendo e piegando diabolicamente la lattina).

Puoi prenderne altra, mi dice la ragazza. Ah! Magnifico. Ritorno al frigorifero prendo un altro mezzo e ritorno alla cassa. Ma guarda che puoi prenderne ancora, mi dice lei. Io chiudo tra un attimo, prendine ancora. No, per adesso va bene così, me ne bastano due. Devo comportarmi bene. Lei sorride e mi dice: Si vede che non sei bavarese!

Chicken or Beef? mi chiede l’hostess. Arriva il pranzo con la consueta domanda. Io li prenderei entrambi, sono affamato come una faina a digiuno. Ma tra qualche ora potrò finalmente affondare i denti in un succulentoo burger cotto come si conviene su una bella piastra oliata, mentre seduto al bancone mi scolo una Sam alla spina.

Cazzo! Sono decisamente troppo lucido adesso mentre scrivo. Ok, mi son messo le cuffie e sto ascoltando un po’ di musica e dopo una marea di bluegrass, jazz e musica desertica sto volando verso l’isola di St. John’s ascoltando Semtex Revolution dei Coroner di Zurigo. Ma quanto ancora mi rende orgoglioso questa band? Saint-Pierre et Miquelon in basso e Pale Sister quassù. Mi ricordo che quando uscì quest’album si disse che i Coroner avevano ridotto le marce e diminuito i BPM delle loro violente cavalcate. Oggi a me questa musica suona veloce come la express subway di Manhattan.

Bene bene signori, é già tempo di resoconti mentre sto trascorrendo le ultime ore in terra d’America. Siamo arrivati al nostro gate abbastanza deserto in largo anticipo e già mi domandavo se sarei stati in grado di bermi una birra fresca prima di imbarcarmi. Cominciavo a disperare fino al momento in cui, girato un angolo, mi trovo di fronte alla Samuel Adams Brewhouse. Un miraggio!

Dunque adesso mentre sorseggio la classicissima Sam scura, sorrido pensando a quest’ultima intensa settimana trascorsa a spasso per le strade di NYC. E’ micidiale il senso di disinvoltura e distacco (in un certo senso) che questa città é capace di incollarmi addosso. Capita sempre, ad ogni visita: si superano le prime ore cercando di sopportare il frastuono a volte assordante da tutte le possibili sorgenti sonore. Polizia, pompieri, ambulanze, automobilisti comuni, tutti impegnati in una sinfonia di baccano caotico, avvolti dagli odori intensi di cibo, frittura, carne alla piastra, merda, sudore, improvvise folate di Chanel N° 5 al limite dello svenimento. Muri incrostati di strati e strati di carta, poster stracciati, autoadesivi, tombini che fumano di vapore. Rivoli di acqua lurida che corrono in strada contro i marciapiedi, trasportando ogni sorta di rifiuto, mozziconi di sigarette, bicchieri, tovaglioli, uccelli morti, pasta cinese, resti di pizza e ancora merda e piscio.

Ma poi la città, che é sempre bellissima e freddissima all’inizio  e quasi estiva questi ultimi giorni. Bowery, Houston e Canal st. i punti di riferimento ai quali tendevo di notte per ritornare al mio albergo tra Soho e Chinatown dopo aver assistito con gli amici al magnifico concerto di Felix Pastorius at The Zinc Bar in West 3rd st. mandando giù un mare di Leffe, diverse Tequile, un paio di Bourbon, poi in taxi prima da Pianos in Ludlow st. quindi un salto a Williamsburg con il barista irlandese che detesta il St. Patrick’s Day e infine uno stop poco fruttuoso in un bar vicino all’hotel e nanna alle 05:30.

Nei giorni successivi sperimentiamo lo sport americano ai massimi livelli assistendo ad un derby tra le due squadre di New York in National Hockey League, Rangers contro Islanders al Madison Square Garden, la casa dei Rangers che vincono la partita senza troppi problemi. Sono abbastanza deluso dal tifo praticamente inesistente, gli americani non sembrano avere tifo organizzato ed esultano e cantano solo in caso di goal e solo seguendo le indicazioni che appaiono sul tabellone elettronico. Se appaiono le mani che applaudono gli americani applaudono, se appare la scritta Hey loro cantano hey, se appare la scritta Goal loro cantano goal. E’ invece un loro grandissimo merito la tranquillità sugli spalti, con le tifoserie opposte assolutamente mescolate e rispettose. Sul ghiaccio invece, non un secondo di rilassamento nell’arco dei sessanta minuti. Un’intensità costante, continua dal primo all’ultimo minuto con le proverbiali risse che tanto scandalizzano i nostri telecronisti sportivi quando avvengono sulle nostre piste. Imbecilli, falsi moralisti che non hanno capito a quale spettacolo stanno assistendo.

Una mattina ci dirigiamo a sud dell’isola di Manhattan per poi risalirla lungo l’Hudson River. Giriamo per delle strade quasi deserte e sembra di vivere le scene di Vanilla Sky di Cameron Crowe, con Tom Cruise che si trova davandi una avenue completamente deserta da cima a fondo. Sono tutti scomparsi. Il fatto é che se non vedi nessuno a New York City può essere che il mondo sia veramente scomparso… Arrivati lungo la Hudson River Greenway appaiono i primi jogger che corrono nel vento gelido, in maglietta a maniche corte e pantaloncini. Lungo il fiume affiorano di tanto in tanto i piloni di sostegno di un vecchio pontile (pier) che oramai non c’é più. Dall’altra parte del fiume la skyline di grattacieli di Jersey City con dei grossi nuvoloni sopra che però filano veloci. Stiamo risalendo Manhattan con destinazione finale il molo 86 dove visiteremo la portaerei USS Intrepid, Ivan deve assolutamente vederla. E’ una specie di mania, di sogno proibito che si porta dietro da tanti anni e anche io sono assai curioso. Trascorriamo una fantastica mattinata gironzolando sui ponti della Intrepid e visitando infine anche il sottomarino Growler. Riusciamo solo ad immaginare il senso di claustrofobia che poteva impadronirsi dell’equipaggio quando questo aggeggio costruito nel 1958 girava sott’acqua per gli oceani. Una vera scatola di sardine, uno dei miei incubi cerificati! Mi tornano alla mente le immagini del capolavoro di Wolfgang Petersen, Das Boot e i brividi corrono lungo la schiena.

Tutto strettissimo, tutti ammucchiati, aria viziata, strani rumori, il sonar che scandisce la distanza dalla morte, sconcertante, cucina 1 metro quadrato con piastre e cibo per 88 persone, le cabine degli ufficiali  e del capitano grandi come un quarto di cuccetta di treno, poi uno stretto corridoio pieno di nicchie-letto alte non più di 50 cm per l’equipaggio, dei cessi stile aeroplano per dimensioni ma con l’aspetto del cesso più lurido di Scozia, per parafrasare Trainspotting, poi cunicoli, ferraglia, tubi, bottoni e lucine dappertutto, in uno strettume da suicidio, vecchia vernice verde marcio, cavi, manopole e manovelle, siluri e bombe, cornette di telefono, alle pareti, bulloni, saldature, guerra fredda, russi incazzatissimi, bombe di profondità, foto di fighe d’epoca giapponesi appese e caos strisciante che aspetta.

Usciamo dal sottomarino e finalmente é aria aperta, cielo, prospettiva, profondità di campo, azzurro, vita. Grande esperienza il Growler, quasi più interessante della portaerei.

Devo dire che ci siamo scelti un gran bel quartiere per pernottare qui a NY. Il nostro Holiday Inn si trova proprio tra Little Italy e Chinatown, a due passi da Soho e a quattro passi dall’East Village. Io credo che quest’ultimo sia in verità il quartiere più interessante di Manhattan, il più lurido, con la più alta concentrazione di rifiuti umani (non tantissimi per essere sinceri, rispetto alle visite del passato), casino ovunque e sporco per strada come ho già detto prima, e tanta roba attaccata ai muri, bellissima, un caos di autocollanti, poster e scritte che compongono dei veri e propri capolavori anche inconsapevoli a volte, con poster stracciati che si confondono con ciò che era stato incollato in precedenza, dando vita a delle vere esperienze artistiche che bisogna solo saper cogliere; a volte si nascondono in piccolissimi ritagli, a volte sono talmente caotiche che devi fermarti un momento  a guardare, devi dare un po’ di tempo e tutto ti si compone davanti agli occhi, stupefacente, bellissimo e tremendamente estetico. Ivan mi ha insegnato a cogliere tutto ciò, anche se io sono comunque sempre il grande esteta del lurido. Ma lasciamo a Cesare ciò che é di Cesare.

Per tornare alle serate di musica, dico che in effetti dalle parti di West Third Street si può sempre portare a termine una serata grandiosa. La nostra é cominciata alle nove di sera, mangiando fette di pizza straunta in un botteghino all’angolo tra MacDougal e West 3rd, Ben’s Pizza (mi ricordo che il giorno prima mi sono precipitato in questo locale e con estrema urgenza ho detto al messicano che infornava le pizze I’ll get a slice if you get me a toilet. Ma che strano ricatto… Come dire la tua pizza vale il mio piscio, ma non era così!). Poi ci siamo spostati tra Sullivan e Thompson, allo Zinc Bar (Sullivan st., cazzo! e per chi conosce i Counting Crows adesso é giunto il momento di cantare: Take the way home that leads back to Sullivan Street). Una scaletta scende nell’interrato, un’atmosfera viola scuro ci accoglie, Felix Xavier Pastorius mi passa accanto e mi urta con una spalla. I’m sorry mi dice, ed esce a fumarsi una paglia. Entro con i miei amici che in verità non sanno, nè del figlio nè del padre, ma non fa nulla, questa sera si impara ad ascoltare. Non sapere é spesso la porta per il vero ascolto libero, spontaneo e sincero. Al bancone mi accorgo subito che non hanno buona birra alla spina e ordino dunque 3 Leffe in bottiglia perché in Belgio non hanno da imparare da nessuno. Io sono felicissimo, mi ricordo le serate di tanti anni fa a NYC e questa me le rievoca. E’ impareggiabile essere qui con amici, aspettando altri amici prima di assistere ad un magnifico concerto. Dopo alcuni minuti arriva Aaron. Sono anni che non lo vedo. Ci abbracciamo e cominciamo subito a raccontarcela. Non siamo più ventenni ma Aaron mi dice: ma che c’é nell’acqua di Certara che non sei nemmeno invecchiato negli ultimi vent’anni, e porti sempre la stessa maglietta?! Subito risate. Questo é il modo giusto. Arriva anche Jay e partono altre cinque Leffe accompagnate però da cinque shots di Tequila. Evvai! Ci raccontiamo un po’ di storie mentre Felix smanetta il suo basso.

Io sono sempre più contento di essere velocemente piombato in questa magnifica atmosfera jazzata-notturna-niuiorchese. Ilario e Ivan stanno apprezzando e questo mi rende felice. Alla fine del concerto saluto Aaron che torna a casa mentre Jay propone chiaramente una nuova destinazione. Le Leffe e Tequile (2 giri) cominciano a farsi sentire ma saltiamo tutti su un taxi giallo-notte e ci dirigiamo verso l’East Village, tra Stanton e Ludlow St., da Pianos, la strada é costantemente pattugliata dalla polizia che controlla che non ci siano casini. Mi viene chiesta l’ID entrando nel locale, poi un timbro sulla mano, una stella rossa e sono al piano di sopra, dove gente piuttosto sbarellata si cimenta in improbabili Karaoke. Ivan chiede al capo se ci sono canzoni in italiano. Lui sarebbe pronto a buttarsi ma non c’è niente da cantare. Giù nei cessi gira cocaina ma noi siamo tutti bravi ragazzi. Mamma mia quanto siamo bravi!

Intanto mi rendo conto che sono le nove e mezza e non ho mangiato un cazzo stasera ma sono presissimo a scrivere mentre sul piatto del giradischi girano gli ultimi acquisti niuiorchesi, Wes Montgomery, Ahmad Jamal, Cannonball Adderley e Chet Baker. La rinascita del vinile. A NY tra le altre cose é successo qualcosa di straordinario, per certi versi. Non esistono più i megastore di musica. Hanno tutti chiuso e fatto bancarotta. Incredibile! Tower Records, Virgin Megastore, HMV, tutti chiusi. Non c’ é più un solo grande magazzino musicale aperto a NYC. Incredibile! Se vuoi comperare un CD devi andare in East Village o a Greenwich Village e trovarti un negozietto di quelli che battevo io a metà degli anni novanta in cerca di bootlegs di Zappa. Ma ora direi che ci sono più negozi di vinile che di CD. Fantastico! Il vinile é sopravvissuto al CD in America. iTunes ha distrutto il mercato dei CD qui in USA. Dunque ora se apprezzate un artista qualunque, pagate su iTunes per poco meno del prezzo di un CD, una lurida versione mp3 compressa dodici volte la versione originale! Evviva Apple! Evviva Steve Jobs!

Tornando alla serata, dopo Pianos, saltiamo su un altro taxi e attraversiamo l’East River per raggiungere Williamsburg, un tempo quartiere ebraico assai ortodosso e ora mecca hipster di NYC. Siamo tutti già cottissimi. Ilario ha strani impulsi che ricordano lo sbocco di vomito mentre corriamo lungo il Manhattan Bridge alle 03:00 del lurido mattino che ci piace assai, farneticando sul taxi. Per strada solo auto veloci e piccoli parchi illuminati di verde neon con cartacce svolazzanti per strada e probabili barboni all’addiaccio. Atteriamo in questo bar assolutamente assurdo nella mia memoria. Il barista irlandese tira fuori il suo iPhone, mi scatta una foto, poi fa partire un app che zombifica la mia immagine. Scuotendo il telefono cambiano le sembianze della creatura orrorifica con le mie lontanissime sembianze. Occhi completamente bianchi e naso collassato, con rivoli di sangue dalla bocca decorata da denti inbreeder stile Virginia profonda. Lui ride. Rido anche io mentre sto tracannando un Maker’s Mark Bourbon e in sottofondo gli AC/DC cantano ‘Cause I’m T and T, I’m Dynamite, T and T, and I’ll win the fight! e io sto proprio diventando obliquo. Niente da fare, nessuna tregua stanotte. Alle quattro si salta di nuovo su un taxi giallo e si ritorna a Manhattan, dalle parti di Kenmare St. per un’ ultima tappa in un locale dove riusciamo a farci un ultimo giro di Bourbon, ma la sala sotto é occupata da un private party e non c’é verso di convincere l’armadio che la presidia. Ritoniamo in albergo e ci addormentiamo alle 05:00. Una giornata intensa!

Qualche giono dopo scopriamo sempre da Pianos, una fantastica band canadese, The Beauties, band assai coesa, tight come dicono qua in USA. Prima del concerto ci concediamo, in un locale gestito da amici di Jay, uno stupefacente percorso piemontese a base di formaggi, un ottimo vino valtellinese e un fantastico dessert a base di panna cotta e confittura di fichi, con un bicchierino di gelato e caffé. Intanto sono diventato un fan istantaneo di questa bluesy band. Mentre torniamo in albergo mi concedo un orgasmo gastronomico: una crèpe alla nutella e zucchero a velo. Un vero e prorio rapporto sessuale! E’ una delle cose più goduriose preparate su questo pianeta! Ne mangiavo spesso a Bologna da Bombocrep.

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3 commenti

  1. Assaf fantistico! Come mi manca NYC…..da novizia intendiamoci. Ci sono stata per la prima volta in vita mia a Dicembre lo scorso anno. E anche io stavo nell’East Village…e la musica!! la prossima volta che fai tappa a Zurigo ci devi assolutamente rimanere piu’ ore e devi uscire con me!

  2. Beh, che dire? Sembra tutto fantastico: concerti, sane piene, bighellonate nei quartieri come cani sciolti, luridume e chaos, freedom e consapevolezza che il mondo è una figata.
    Oh, bella la descrizione del Growler!
    Una settimana all’anno a NYC te la dovrebbe pagare la cassa malati: fa bene al cuore e previene il burn out.

    • E che dire? E’ tutto così e inoltre abbastanza necessario ogni tanto. Quando si torna da New York ci si sente per un po’ di tempo un guerriero urbano. NYC é come una strana vitamina di cui l’organismo ha bisogno. Durante l’anno si arriva ad un punto in cui, per così dire, cadono le difese immunitarie e si diventa un po’ molli, inattivi, apatici, poi arriva NY e per un po’ non si può più fare a meno di fare…

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